Il destino di molti intellettuali comunisti è stato quello di vedere la propria vita di studiosi coincidere con quella del partito. Dove sono finiti gli storici (per isolare solo una categoria) dopo la fine del Pci?

Di Paolo Spriano come di Ernesto Ragionieri e dello stesso Giuliano Procacci (che, però, è stato storico moderno e autore di opere generali sulla storia degli italiani) non risulta che le opere siano state ripubblicate, o ci sia una domanda. L’interesse al loro lavoro è durato quanto è durata l’esistenza politica del Pci.



Negli ultimi 10-15 anni, forse col cambio del suo nome, avvenuto nel congresso di Rimini del 1991 ad opera di Achille Occhetto, la saggistica,  la stessa memorialistica sul Pci è venuta scemando. Fino a costituire un buco nei principali cataloghi.

Anche queste evento dovrebbe suscitare un interesse. Infatti i libri sul fascismo hanno un successo di vendite che non declina. Eppure movimento, partito e regime di Mussolini sono durati circa un quarto di secolo, mentre col loro nome originario i comunisti sono stati sul campo, all’opera, dal 1921 al 3 febbraio 1991, cioè circa 70 anni.



Com’è possibile che una dittatura sia ricordata più a lungo di una forza politica che ha dominato negli anni della lotta al fascismo e dopo la seconda guerra mondiale e ha educato alla politica, alla cultura, al giornalismo milioni e milioni di italiani?

Un giovane studioso, Leonardo Raito, affronta questo complesso problema dal punto di vista di uno degli storici più noti, più letti del Pci, Paolo Spriano, intellettuale militante (Cluep, Padova 2017)

Debbo dire che il titolo, sia esso dell’autore sia esso dell’editore, suscita qualche perplessità. Non sull’aggettivo, ma sul sostantivo.



Nella formulazione che ne diedero gli enciclopedisti francesi, a cominciare da D’Alembert nel XVIII secolo, l’intellettuale ha un mandato preciso: essere un critico del potere. Di qualunque potere, dispotico o democratico, di setta o di partito o di chiesa.

Il potere intellettuale consiste nel creare problemi, fare domande, muovere critiche a chi comanda nell’interesse di chi non comanda.

Nella tradizione comunista chi coltiva i saperi è tenuto a interpretarli e socializzarli in funzione degli interessi del partito. I partiti comunisti, cioè i loro dirigenti, si sono comportati sempre come un intellettuale collettivo. Decidevano che cosa, come e quando un personaggio o un tema andava studiato. 

Paolo Spriano si era formato politicamente nel Partito d’Azione. Nelle sue fila aveva conosciuto uno dei maggiori storici italiani (sia dell’illuminismo sia del populismo russo), Franco Venturi. L’adesione al Pci Spriano la compie a Torino dopo la guerra di liberazione, quando gli azionisti si erano ridotti al lumicino, generali senza esercito, con pochi giornali e case editrici, scarsi finanziamenti.

Nel Partito d’Azione un intellettuale non aveva la possibilità di sopravvivere se non aveva un proprio mestiere da cui trarre un reddito.

Spriano è vissuto sempre come un giornalista e ha lavorato nelle grande rete di quotidiani, settimanali, periodici, case editrici ecc. che facevano capo al partito. Non credo ci sia nulla di inverecondo o di male nel ricordare quanto la sua corrispondenza col suo maggiore editore, Giulio Einaudi, documenta: una continua, pressante richiesta di pagamento di saggi, introduzioni, curatele, traduzioni eccetera. Si riempiva di impegni di lavoro, ma Einaudi era ogni volta sul filo del rasoio, a rischio fallimento, e quindi lo pagava quando poteva.

Spriano è stato uno studioso e uno storico del movimento operaio torinese, di un esponente del liberalismo come Piero Gobetti e soprattutto del Pci. Dalle origini fino alla fondazione della Repubblica, il 2 giugno 1946 ne ha ricostruito le vicende, le difficoltà, le contraddizioni, le lotte interne e quelle con l’Internazionale comunista.

Non è stato facile prendere posizione, quando farlo coincideva col fare parlare i documenti. Nel partito esisteva una vera e propria resistenza a farne uso. Sintomatica fu la stroncatura che Giorgio Amendola dedicò ad Angelo Tasca chiamandolo un archivista della rivoluzione perché negli Annali Feltrinelli aveva pubblicato materiali inediti sul fascismo, il Comintern, i contenziosi tra comunisti sovietici e via dicendo. Il messaggio era rivolto sia a Spriano sia a Ragionieri, che stavano lavorando sulle carte dell’archivio del Pci inviate da Mosca.

Spriano non evita, ma lascia esaurire i dissensi suscitati dai diversi tomi della sua storia perché ha una bella scrittura. Non non era uno scrittore aggressivo né irruento. La sua stella polare fu il partito, cioè il suo massimo dirigente Palmiro Togliatti nelle cui posizioni finisce sempre per identificarsi.

Non mi pare siano da considerare un modello di storiografia indipendente le pagine su episodi su cui Raito non si sofferma. Mi riferisco a quelle sulla fine degli anni Trenta, quando Togliatti si fa cantore di una spregiudicata operazione nazi-fascista: cioè l’esaltazione degli accordi tra il ministro degli Esteri sovietico Molotov e quello hitleriano von Ribbentrop. Nel 1939 segnarono l’uscita dei comunisti dalla lotta antifascista, l’apologia di due dispotismi collusi (di Stalin e Hitler) e il dileggio delle democrazia parlamentari di Francia, Inghilterra, Spagna (nella disperata difesa della repubblica), Paesi Bassi e del Nord Europa.

Stato Operaio, l’organo teorico dei comunisti italiani, aprì una discussione per valorizzare la proposta di estendere la collaborazione ai fascisti della prima ora (i sansepolcristi, come venivano chiamati). Il loro programma era rigorosamente di sinistra, anticapitalista e anche anticlericale. Sono i temi su cui i dirigenti del Pcd’I insistono per cercare di spostare sulle proprie posizioni la base popolare del Partito nazionale fascista. L’anti-fascismo sembrava ridotto ad un’incomprensione o a una ciprietta.

In secondo luogo, Spriano non sa prendere posizione di fronte alla demonizzazione delle socialdemocrazie che Togliatti, al seguito del Comintern, compie. Quindi non dedica che un fuggevole accenno al tentativo nell’estate del 1945 di Longo di dare vita ad una partito unico tra socialisti e comunisti sul modello di quello laburista.

L’esecrazione del riformismo socialista continua nella contestazione che Spriano, come giornalista e membro del Comitato centrale, dedica al leader socialista Bettino Craxi. A fronte di questa condanna del socialismo troviamo silenzio, misura e cautela, se non reticenza, sui regimi comunisti. 

Raito non mi pare ricordi analisi o prese di posizione in cui lo storico comunista abbia bollato come dispotismo, violazione dei diritti e della stessa dignità degli uomini i governi di tutti i paesi, in Europa, in America latina e in Asia in cui il comunismo si è imposto. 

Anche su un fatto clamoroso Spriano ha saputo tacere. Mi riferisco alle rimesse fatte pervenire da Stalin ai partiti del Comintern e del Cominform, e quindi anche ai comunisti italiani. Il finanziamento si protrasse, con i successori di Stalin, fino alla fine degli anni Settanta del XX secolo. Secondo i calcoli di F. Bigazzi, V. Riva e S. Romano corrispondeva a un quarto, grosso modo, della somma (3.900 miliardi) elargita dall’Urss dopo la seconda guerra mondiale ai “partiti e alle organizzazioni operaie di sinistra”, aderenti al Comintern e al Cominform. Senza contare il ricco obolo fatto pervenire alle “ditte progressiste”, come l’Italturist, e alle iniziative politiche, editoriali ecc. di un dirigente come Armando Cossutta.

Spriano è stato un (a volte) inquieto, ma fedele militante di un partito come il Pci, in cui la sua precedente eredità liberal-socialista è semplicemente scomparsa. Mi pare un merito del saggio di Raito avere stimolato questo approccio non meramente elogiativo del bravo storico torinese.