Dire che il movimento dei poeti e scrittori Beat fu animato da un profondo senso religioso potrebbe sembrare blasfemo. Come potrebbe essere ciò, quando poeti come Allen Ginsberg hanno esaltato l’omosessualità, scrittori come Jack Kerouac l’alcolismo (fino a morirne) e altri come William Burroughs la dipendenza dall’eroina? 



Si può dire se non ci si ferma a una conoscenza di superficie, quella che da anni si è applicata a questi personaggi. E’ certamente vero che la forza promulgatrice di quel movimento fu la contestazione del bigottismo, dell’oppressione politica ai tempi della caccia alle streghe, il moralismo, il consumismo cioè le caratteristiche della società americana del primo dopo guerra. Ed è vero che ciò che li muoveva era l’impulso alla libertà totale dell’uomo, scegliendo di rifiutare ogni “comandamento” imposto, aprendo la strada alle rivoluzioni politiche e sociali degli anni 60, molte delle quali col tempo si sono rivelate tragici errori. 



Andando a fondo della produzione di molti di loro si scopre però come questi personaggi fossero profondamente alla ricerca di un fondamento religioso. Da Ginsberg con le sue profonde radici ebraiche mai negate e anzi approfondite fino all’approccio al buddismo, al cattolicesimo di Kerouac. Il poeta William Everson addirittura entrò in monastero come frate laico domenicano, rimanendoci quasi vent’anni, per poi dedicarsi a studi psicologici ma mai dimenticando la sua fede cattolica.

Combatterono una lotta, distruggendo ogni convenzione, facendosene beffa, eppure stranamente l’unica cosa che non riuscirono a distruggere fu quel profondo desiderio del loro cuore.



Il più legato alla sua educazione cattolica fu senz’altro Jack Kerouac: “La Beat Generation non ha alcun interesse nella politica, è interessata solo al misticismo” disse in una intervista. Lo scrittore, che cercò a lungo una sorta di sincretismo tra buddismo e cattolicesimo, visse sempre con un profondo senso di colpa e di nostalgia provocato in una sorta di scontro perenne fra peccato e redenzione “E’ un grande peso essere vivi, un peso gigantesco. Vorrei essere salvo in Paradiso, morto”.

“Un giorno tornai nella chiesa della mia città dove avevo ricevuto la cresima. Ero completamente da solo nel silenzio totale. E improvvisamente capii che Beat significa Beatitudine”. “Credo che Dio sia Estasi, nella sua Immanenza naturale”. Alla domanda come mai non avesse mai scritto a proposito di Gesù, rispose: “Tutto quello che scrivo riguarda Gesù. Sono il Mercante eterno, Generale dell’esercito di Gesù”. E negli ultimi anni di vita: “Sono un gesuita, vivo a casa con mia madre, è un monastero, sono un monaco e lei è la Madre reverenda”.

Non era sentimentalismo il suo, ma una radicalità provocata da un fatto concreto accaduto nella sua vita, la morte del fratello maggiore Gerard quando aveva solo 4 anni: “Quando era sul suo letto di morte, aveva 9 anni, nove suore entrarono nella sua stanza dicendogli: Gerard ripeti quello che ci hai detto. E Gerard si rivolse a mia madre dicendole che stava andando in Cielo a prepararle una casa bellissima”.  “Gerard era un piccolo Gesù e io il suo discepolo, e l’ho seguti attraverso tutte le stazioni del suo calvario. L’ho seguito sempre da allora perché so che lui è lassù e guida ogni mio passo”.

Il vecchio motto  “Once Catholic, always Catholic” si applica alla sua esistenza, nonostante essa sia stata segnata da ogni sorta di trasgressione: “Sono nato cattolico e non è nulla di nuovo per me”.

La mostra di dipinti “Kerouac Beat Painting” che ha aperto lo scorso dicembre nella bella cornice del Museo Maga di Gallarate (chiuderà il 22 aprile) non è solo l’occasione di riscoprire tutto ciò. Anche per il più fanatico conoscitore dello scrittore americano, essa è una sorpresa. Pochissimi sapevano infatti che l’autore di “On the Road” si dedicasse anche alla pittura, anche perché le sue opere fino a pochi anni fa erano rimaste nelle mani dell’esecutore testamentario di Kerouac, il cognato John Sampas che solo recentemente le ha vendute a due collezionisti di Locarno, i fratelli Paolo e Arminio Sciolli, i quali hanno deciso di metterle in mostra (finora esposte solo in alcuni selezionati musei come il Whitney Museum of American Art di New York, il Centre Pompidou di Parigi e lo ZKM di Karlsruhe)

Ottanta tra disegni e dipinti dove il labirintico processo creativo si dipana attraverso la tradizione visiva americana, i maestri della pittura informale di New York e opere antiche che lo hanno affascinato nei suoi tanti viaggi, tra cui quelle di Caravaggio e Rembrandt. Si resta a bocca aperta davanti al “cadaverico” ritratto de futuro papa Paolo VI, ancora cardinale, che vide su una copertina di Life: il rosso scarlatto sembra sangue, il volto trasfigurato in una maschera di morte la dicono lunga del suo approccio difficile con la fede. Ma anche un carattere profetico: il dipinto è del 1959, Montini diventerà papa nel 1962. 

Non meno affascinante è il grande cuore rosso dentro a un corpo umano da cui spunta una mano “sporca” che fa il gesto della pistola, che sembra raffigurare quella che è la nostra essenza, un cuore che batte desideroso della felicità, e la contraddizione dei nostri gesti, anche violenti.  La presenza del fratello Gerard fa capolino poi in “Tobia e l’angelo” dove il fratello è l’angelo mentre la ripresa della “Cattura di Gesù” di Tiziano viene tratteggiata come se Giuda fosse lui, Kerouac: “Giuda non ha mai chiesto di essere Giuda  e neppure io, ma io ho sentito di tradire Gerard continuando a vivere mentre lui moriva” aveva scritto.  Colpiscono gli schizzi buttati giù di fretta a matita, magari tra un viaggio e l’altro, a bordo di quei treni merci dove viaggiava insieme ai vagabondi: quello che sembra un pasticcio è in realtà una Madonna con il Bambino. Ci sono anche ritratti di personaggi dell’epoca come Joan Crawford, Truman Capote, Dody Muller. 

Ad arricchire la mostra fotografie di Robert Frank, Ettore Sotsass, Fernanda Pivano, Allen Ginsberg e il video dell’intervista della Pivano a Kerouac quando fu ospite alla Rai, un uomo ormai devastato dall’alcol che si addormenta davanti alle telecamere. Una vita spesa nella ricerca implacabile di un Dio “di cui non riesco a vedere il volto”, finita una notte a soli 47 anni con lo stomaco perforato dall’alcol: “E’ lo Spirito Santo che scorre attraverso di te, non c’è bisogno di essere cattolici per capire cosa intendo, e non devi essere un cattolico perché lo Spirito Santo parli attraverso di te”.