Lo scenario in cui l’Italia sta andando alle elezioni è ben descritto nell’intervista del sussidiario a Mauro Calise, uno scenario critico che, come giustamente rileva il professore, si è ormai esteso a gran parte del mondo occidentale. In Italia, almeno esteriormente, si presenta più grave per la marcata assenza di ciò che si definisce “sistema Paese”. La crisi vede al suo centro il concetto stesso di partito, elemento fondamentale finora per il nostro tipo di democrazia.



Come dice il nome stesso, il partito dovrebbe essere espressione della concezione della società e dello Stato condivisa da una parte, più o meno grande, del popolo. Questa concezione trova un luogo di confronto con quella di altri partiti, e quindi di altre parti del popolo, nel dibattito politico e, infine, nella competizione elettorale. Il partito si presenta — o meglio, si presentava —come un’associazione organizzata, con proprie strutture territoriali a diretto contatto con il popolo e centri concentrici che, partendo dagli apparati del partito, attraverso attivisti, iscritti e simpatizzanti arrivano agli elettori, anche se disimpegnati dalla politica attiva. A grandi linee, questa struttura ha caratterizzato i primi decenni della Repubblica, con la contrapposizione tra Democrazia cristiana e suoi alleati, da un lato, e il Partito comunista dall’altro.



La caduta del Muro ha posto fine a questo schema e Mani Pulite non ha solo determinato la fine della Dc e degli altri partiti di centro, ma anche condotto a termine la trasformazione del Pci. Sulla scena politica attuale si possono trovare ancora, e non rari, ex o postcomunisti, difficile è trovare un partito che possa essere assimilato alla visione globale della società e dello Stato che aveva il vecchio partito comunista, per quanto deleteria fosse. Sull’altro lato è venuta a mancare anche una rappresentazione organica dei cattolici a fronte di una progressiva privatizzazione della loro attività politica.



Il ventennio di alternanza tra il centrodestra di Berlusconi e il centrosinistra di Prodi — non a caso entrambi ancora sulla breccia — è stato caratterizzato non da partiti come prima descritti, ma da aggregazioni elettorali. Ciò ha portato a una progressiva personalizzazione della politica e se il confronto/scontro di un tempo poteva rimandare a quello storico tra Guelfi e Ghibellini, l’attuale situazione ricorda più una lotta tra clan tribali. E ha ragione il professor Calise quando afferma che mancano veri leader, pur in presenza, aggiungo io, di molti capi clan. Il Parlamento in scadenza, eletto con una legge dichiarata incostituzionale, ha visto il sorgere al suo interno di una miriade di nuovi partitini e ha registrato più di 500 passaggi di deputati e senatori da un gruppo all’altro. Non è quindi sorprendente che molti elettori rinuncino a votare, tanto più che la nuova legge elettorale non consente una reale possibilità di scelta tra candidati e liste.

Ulteriore indice del deterioramento della situazione è il focalizzarsi della discussione sulla legge elettorale, con il conseguente capzioso dibattito su rappresentatività e governabilità. In una democrazia rappresentativa è fondamentale la corretta rappresentazione in Parlamento delle differenze esistenti nell’elettorato. L’ingovernabilità nasce dalla situazione politica del Paese e dall’impossibilità, o non volontà, di trovare un efficace compromesso di governo: in fondo, il massimo di governabilità è dato dalla dittatura, magari con una legge elettorale che prevede il “partito unico”.

Un’ultima riflessione merita una frase del professor Calise, quando parla degli italiani “a basso livello di istruzione e socializzazione, queste persone sanno probabilmente tutto di Higuain o di Amici ma poco o nulla di come si vota o della flat tax”. Vista l’attuale legge elettorale e la complessità del problema flat tax anche per gli esperti, questa osservazione potrebbe essere estesa a gran parte degli italiani, anche a quelli che seguono i dotti talk show sulla politica. La frase, senza dubbio al di là delle intenzioni del professore, suona tuttavia come una condanna del suffragio universale e dell’estensione del diritto di voto al “popolo bue”. Da notare che questa è stata spesso la reazione di una certa parte della sinistra a votazioni a lei sfavorevoli.

Rimane il fatto che la prontezza dei politici a propinare illusioni, contrapposta alla difficoltà a spiegare i loro programmi agli elettori, è un altro fattore che spiega la loro distanza dal popolo. Questo è un altro punto su cui i politici dovrebbero riflettere seriamente: la difficoltà non è principalmente nella complessità delle proposte, bensì nella loro incapacità a renderle comprensibili, meglio, dal loro disinteresse non solo a spiegare ma ad approfondire loro stessi queste proposte, viste solo come un fastidioso biglietto di entrata in Parlamento.