Forse gli intellettuali, questi eremiti laici delle città (les intellos, come li definiscono i francesi con scorciatura ironica), esistono ancora. E forse sono ancora pronti a “dire la verità in faccia al potere” (speak truth to power), secondo lo scultoreo motto dei Quaccheri; o almeno, a sostenere (come scriveva José Ortega y Gasset già negli anni Trenta) la paradoxa contro la doxa, cioè la visione criticamente meditata (la paradoxa) contro l’opinione acriticamente massificata (la doxa). Comunque sia, questa peculiare campagna elettorale può essere un banco di prova, per capire se l’ intellettuale (quello che Alfredo Panzini chiamava il “povero letterato”) ha ancora qualcosa da dire.



I politici sono tenuti dal loro mestiere a parlare sempre in zona di esteriorità, stanno sistematicamente nel “fuori”. E’ il mestiere loro, appunto; e criticarli per questo è una delle manovre moralistiche a cui ricorrono i molti (troppi) commentatori, i quali sembrano così voler giustificare il loro star fuori dai fenomeni pur avendo la possibilità di andare più addentro. Non si tratta di star dentro o fuori da centri più o meno segreti di informazioni e di potere; bensì di ritrarsi ogni tanto dal turbine sociale particolarmente coltivato dai politologi, e adottare la prospettiva del soggetto. Questo potrebbe ancora essere compito degli intellettuali, e non soltanto di essi.



Per esempio: le speculazioni sui sondaggi finalmente si sono taciute, non senza aver procurato qualche danno con la loro apparente obiettività. A chi giova infatti l’insistenza, sotto le apparenze scientifiche di una certa numerologia, riguardo alla  futura “ingovernabilità”? Alla compagine filogovernativa, la quale indirettamente lancia un avvertimento con una leggera vena minatoria: “E vabbè, questa volta perdiamo; ma tanto non vale, e si tornerà a votare un’altra volta”. Senza contare (ma forse anche questo era stato messo in conto) che ripetuti avvertimenti di questo tipo possono incoraggiare il voto-no; così chiamato per raccogliere sotto un termine solo la vera e propria astensione, il voto bianco e il voto nullo, tre opzioni che comunque andrebbero distinte accuratamente dopo le elezioni, in vista di un’analisi seria la quale difficilmente avrà luogo perché non è nell’interesse del potere.



Si potrebbe anche parlare di un “voto bianco”, ma non conviene: collocare tra i colori  in gioco — che si rifanno all’eterna coppia di quel bel titolo di Stendhal, “Il rosso e il nero” — il bianco, evocherebbe un’immagine troppo molle, fra la castità e l’impotenza. Comunque, con il voto-no si esce dalla politica come aneddotica e si solleva una questione le cui implicazioni di fondo riguardano la filosofia della politica, o semplicemente la filosofia.

Due sono le mosse con cui lo Stato Profondo para il cosiddetto pericolo del cosiddetto astensionismo: mantenere un muro esterno di silenzio intorno al silenzioso muro interno dei potenziali ribelli, senza provare a scavare varchi in quest’ultimo; e al tempo stesso, trattarli come una massa più o meno patologizzata, usando termini-chiave come “la rabbia” o il suo contrario e complementare, “l’inerzia”. 

Proviamo invece a pensare che cosa sarebbe successo se — in ogni rissa serale alla televisione, in ogni rassegna di interviste ai politici — si fosse lasciato uno spazio anche per un rappresentante del voto-no (a onor del vero, alcuni pochissimi organi, come questo giornale, hanno fatto parlare un “astensionista”; il quale non è parso né rabbioso né inerte). Le conseguenze di questo autentico dialogo avrebbero meritato un aggettivo che ormai è relegato in soffitta: rivoluzionarie (nel senso, beninteso, pacifico e umanista di Gandhi, Martin Luther King e simili personalità).

Mi è appena sfuggito il termine “rappresentante” per parlare di un individuo che sostenga il rifiuto pacifico: ma questo aggettivo è fuorviante — ed è qui che emerge la questione filosofica. Il votante-no infatti, se parlasse, parlerebbe per sé, nel suo modo particolare e idiosincratico. Lui o lei si pone come individuo nel pieno senso del termine, fuori dalla logica massificata, dunque esposto al rischio di essere bollato come cittadino “inutile”; e qui affiora la categoria evangelica del “servo inutile” (Luca 17,10). Ma inutile a chi, a che cosa? Come “il servo inutile” descrive in realtà la fondamentale condizione umana, così che l’aggettivo (la cui traduzione comunque è discutibile) risulta in fondo pleonastico, e resta soltanto l’idea di uno che serva una realtà superiore; così il cittadino “inutile” definisce in effetti la condizione fondamentale di ogni cittadino nella polis, intellettuale o no che sia: il semplice cittadino, senza sovrastrutture e concrezioni ideologiche. Ma dove va, questo cittadino? Ecco la questione filosofica (e politica): che come tale pone una domanda radicale, sulla cui risposta  è aperta la riflessione.