L’arresto nello scorso novembre di una 19enne blogger pro-anoressia ha scoperchiato il vaso di Pandora: la presenza in rete di oltre 300mila siti di analogo tenore. Non è una novità, ma ricordarlo non guasta. Quasi sempre sono siti personali di giovanissime che cercano in rete un’identità e un conforto che a loro sembra impossibile trovare e coltivare nella realtà. Da tempo è pronto un disegno di legge per mettere fuori gioco queste “testate giornalistiche” individuali, ma ci si scontra col fatto che per la maggior parte sono siti di giovani malate, che con inconsapevolezza di malattia (o qualche volta presunta tale) sfidano il senso comune: le politiche per la salute, la scienza, la medicina, la psichiatria e la psicologia alla ricerca di uno strike che mandi all’aria, in un solo colpo, quell’insieme di certezze, regole e dettami che siamo soliti chiamare civiltà. Arrestarle in massa o a campione contribuirebbe solo a farne delle martiri, utilissime per una propaganda globale, dal momento che il fenomeno è tale, senza per altro offrire loro (e alle loro famiglie) una possibile via d’uscita.
Sulla spiegazione del perché il fenomeno continui a diffondersi si sono pronunciati in molti. Di recente Lindau ha riproposto, in occasione della sua scomparsa, una lezione di René Girard (1923-2015) intitolata Anoressia e desiderio mimetico. Il famoso antropologo, che fu professore alla Stanford University, spiega il contagio in chiave sociologica utilizzando il suo cavallo di battaglia: il desiderio mimetico o di imitazione. Per Girard il desiderio mimetico è alimentato da un fortissimo spirito competitivo, che tende ad affermarsi indipendentemente dall’obbiettivo perseguito. Così poco importa se l’ideale di magrezza sia stato ricercato inizialmente per creare un nuovo canone estetico di bellezza femminile — Girard pensa all’imperatrice Sissi che mandò in pensione il canone ottocentesco ancora legato alle forme rotondeggianti e prosperose — esso finirà comunque per affermarsi come canone assoluto anche quando la magrezza sarà diventata oscena, cioè inguardabile.
Anche Bauman come Girard preferisce la spiegazione sociologica a quella clinica legata alle storie individuali e famigliari e in un suo articolo del 2007 parla “dell’anoressia delle nazioni”, paragonando le condotte anoressiche a quelle della Corea del Nord o della Birmania: “chiudere le frontiere e proibire tutte le importazioni a costo dell’infelicità”. All’epoca poteva essere una metafora difensiva nei confronti dell’ambivalenza degli stimoli esterni: il cibo piace, lusinga i sensi, ma fa anche ingrassare. Oggi alla luce delle continue minacce della Nord Corea si può riconsiderare la metafora baumiana come la cifra di una propaganda dell’anoressia sempre più suadente e aggressiva. Le pubblicità malate di Stella McCartney di qualche anno fa, che utilizzano modelle anoressiche, sono solo un esempio.
Ma al di là delle distinzioni degli ambiti di competenza, contrapporre il punto di vista sociale a quello individuale non coglie il cuore del problema e rigetta senza motivo la valida lezione freudiana secondo la quale “la psicologia individuale è sempre sociale” o relazionale. In questo senso il disagio e la sofferenza del singolo esprimono sempre una crisi del legame sociale e della civiltà su cui esso si fonda.
La nostra non è la prima né l’unica epoca dove l’astensione dal cibo si è fatta ideale. Nel libro La santa anoressia (Laterza 1998) lo storico Rudoph Bell ricostruisce tra le altre la vicenda di Caterina da Siena, la santa patrona d’Italia e d’Europa che riportò il papato a Roma dopo l’esilio avignonese. Se avesse senso retrodatare una diagnosi prima della sua “scoperta” e al di fuori del contesto storico-culturale, Caterina sarebbe stata sicuramente una tenace anoressica che con una determinazione eccezionale si sottrae al suo destino sociale. Tale destino l’avrebbe voluta, giovanissima, moglie del vedovo della sorella Bonaventura, “un ricco tintore rozzo e brutale”. Caterina perse metà del proprio peso e con esso gran parte del proprio fascino. D’allora in poi non cessò di digiunare, costruendo sul digiuno estremo, che infine la portò alla morte all’età di 33 anni, un altro fascino: un’autorevolezza spirituale, religiosa e civile che non conobbe pari nella sua epoca e le meritò — per prima — il titolo di dottore della Chiesa riservato a sole altre due donne.
Caterina fu una riformatrice religiosa in un’epoca dove religione, cultura, società e politica erano un tutt’uno. Il suo digiuno, per quanto ai nostri occhi francamente patologico, non è mai fine a se stesso: è in vista della perfezione religiosa come ella e la sua epoca la intendevamo. Una perfezione che la rende amabile dallo sposo al quale la santa si unisce in una visione mistica nel 1367, quando aveva vent’anni: “uno sposo ricco”, come ebbe a scrivere, che nulla le avrebbe fatto mancare, neppure il cibo possiamo presumere.
In vista di cosa sia invece l’anoressia giovanile dei nostri giorni lo ha raccontato Michela Marzano, una delle 50 intellettuali più seguite in Francia, dove insegna filosofia morale. Nel suo libro Volevo essere una farfalla, l’autrice racconta che quando vinse il concorso per la Normale di Pisa pesava 35 chili e perdeva i capelli divorata dallo zelo di essere la prima in tutto. Alla fine ne uscì guarita andando in analisi, dove seguendo il suo desiderio di leggerezza imparò a buttare a mare il suo ideale di perfezione: una zavorra che la condannava a essere la prima in ogni cosa, anche nella magrezza estrema.