“Cosa c’è di più misterioso della chiarezza?” si chiedeva Christian Schad. E la stessa domanda si potrebbe ripetere vedendo i quadri di Maurizio Bottoni, in mostra fino al 24 febbraio al Centro Culturale di Milano, in Largo Corsia dei Servi 4. Una nitidezza iperreale, un’esattezza fiamminga dell’immagine, che ne restituisce tutto il mistero. E ne esprime anche la drammaticità, per quel fondo buio che emerge anche dietro soggetti, come una zolla fiorita di erbe, apparentemente sereni.



Partiamo dal tuo esordio.

Ho esordito nell’ambito dell’Arte Povera, era il 1967-68. Frequentavo Pino Pascali quando veniva a Milano. Sentivo però, anche lì, che non era la mia strada. Poi ho avuto l’occasione di incontrare de Chirico: avevo una casa a Venezia (io sono nato a Milano, ma i miei genitori sono veneziani e a Venezia andavo spesso) e lo vedevo. Ho potuto avvicinarlo, parlargli a lungo. E’ stato un incontro determinante per la mia vita e la mia pittura.



Di che cosa parlavate?

Soprattutto di tecnica pittorica. De Chirico aveva sempre dato grande rilievo al mestiere, aveva scritto negli anni venti un Manuale di tecnica pittorica e anch’io ho incominciato a interessarmi, sul suo esempio ma anche per una ricerca personale, alla tecnica dei maestri antichi.

E’ una tecnica che hai sempre utilizzato?

Sì, ho sempre dipinto e ancora adesso dipingo su tavola, non su tela, e la preparo io stesso. Sulla tavola poi incollo una tela di lino, quindi stendo un velo di colla animale e dipingo con velature all’olio. Uso insomma la tecnica antica della tempera all’uovo a velatura, che dà all’opera una particolare luminosità: una luminosità che non ci sarebbe con la normale pittura a olio. D’altra parte la tecnica non è solo una questione tecnica. Per i Bizantini, ad esempio, aveva un significato simbolico, sacrale: la tavola di legno alludeva a Dio carpentiere; l'”incamottatura”, cioè il velo di lino incollato sulla tavola, simboleggiava il sudario di Cristo; l’uovo rimandava al principio della vita. 



E’ una tecnica lenta…

Sì, molto. E infatti io dipingo pochi quadri, non sono un pittore “da galleria”, anzi devo dire che non mi piace nemmeno esporre. Certo, è importante ogni tanto far vedere il proprio lavoro, ma non mi interessa il giro del mercato in sé.

Torniamo al tuo percorso. Dopo l’incontro con de Chirico come hai continuato la tua ricerca?

Un altro incontro importante è stato quello con Salvador Dalì, che sono andato a trovare in Spagna. Avevo ventidue o ventitré anni. Mi ha dato uno stimolo fondamentale. 

E in Italia?

Ho frequentato per un breve periodo Annigoni, a Firenze, ma in realtà il suo mondo poetico non era il mio ed è stato un contatto breve. Chi mi ha aiutato molto è stato Giorgio Soavi, art director della Olivetti, un vero e proprio incontro, anche per lui. La Olivetti mi ha commissionato, poi acquistandoli, 12 dipinti che sono stati pubblicati nell’Agenda Olivetti 1991. Potrei dire che Soavi mi ha “sdoganato” perché, come si può immaginare, la mia pittura era vista con qualche sospetto da alcuni critici. Non sembrava abbastanza “moderna”. Ma non posso lamentarmi da questo punto di vista: ho avuto l’appoggio e il consenso di molti, come Tassi, Federico Zeri, Bona Castellotti (è stato lui a organizzare la mia mostra al Meeting di Rimini nel 1997), Sgarbi, Daverio e altri.

Veniamo a questa mostra: fiori, animali, oggetti simbolici. I temi che dipingi sono i più vari.

Sì, non mi piace la ripetizione, la “specializzazione” in un solo genere, che è un po’ la malattia della pittura contemporanea: ripetere cento, duecento, trecento volte lo stesso soggetto, che diventa una sigla. Ma come fanno? Io cerco sempre di inventare qualcosa di nuovo. Il mondo è vario, la vita è varia.

Come nasce, artigianalmente, un tuo quadro, come per esempio quella Zolla?

Quello che mi interessa non è tanto la realtà; cerco di seguire quello che sta succedendo nella realtà. Non dipingo solo quello che vedo, ma cerco di rappresentare anche il processo che sta dietro. Il quadro della Zolla, per esempio, nasce con una serie di sovrapposizioni: prima ho dipinto il frammento di terra com’era all’inizio, poi l’ho ridipinto come è diventato man mano che lo osservavo. Anche nel quadro con l’uovo (un piccolo lavoro, molto intenso, con un uovo in una nicchia, ndr), prima ho dipinto l’uovo il decimo giorno di incubazione, dove si vedeva la forma rosseggiante del pulcino, poi sopra ho dipinto l’uovo come lo vedi ora.

Quindi la prima stesura del quadro non si vede più?

No, è nascosta. E’ come l’invisibile che sta dietro il visibile. Io cerco di rappresentare l’apparenza con la massima precisione. Mio padre era un entomologo, e forse qualcosa dell’attenzione che ha un entomologo è rimasta nel mio Dna. Ma esiste qualcosa oltre l’apparenza. Ed è soprattutto quello che mi interessa.