Un aggettivo accompagna con sempre più frequenza il giudizio sul lavoro di chi  scrive per i giornali: inutile.

La percezione, infatti, dei giornalisti che ancora riflettono sul proprio mestiere è quella di vedere allargarsi a dismisura il fossato fra i fatti raccontati dai mass media e la realtà. “Il mio lavoro — scrive non a caso Domenico Quirico, storico inviato de La Stampa — appare improvvisamente inutile, senza senso. I giornali non informano più, sono diventati troppo lenti”.



Certamente la lentezza è un motivo dello scollamento fra giornalismo e realtà. “E’ come se improvvisamente — scrive ancora Quirico — il giornale e il ritmo del mondo di cui dovrebbe essere il preciso cronometro si fossero staccati l’uno dall’altro”. Il mondo corre, i giornali arrancano. E Internet li batte sul tempo.



Ma non è solo, né soprattutto, una questione di scarsa velocità nell’informazione. Lo scollamento dalla realtà nasce dall’incapacità di immergersi in essa, di fare la fatica di leggerla e di raccontarla. La crisi del giornalismo cartaceo, perciò, non è un effetto dello strapotere del web, o del calo della pubblicità, è soprattutto una crisi di identità che nasce da lontano: dalla rinuncia a voler capire il presente.

Già negli anni Settanta Leonardo Sciascia scriveva: “I giornali mi si parano davanti come un sipario”. Un sipario che viene utilizzato per nascondere la verità dei fatti. O per evitare la fatica di cercarla. Questa pratica consolidata non solo ha reso irrilevante la verifica dei dati, ma ha, al tempo stesso, finito per “cancellare” i lettori. Lo notava ancora Sciascia in Nero su nero: “I giornali italiani vengono fatti come se non dovessero essere letti — e cioè sul dato, o sul pregiudizio, o sull’inconscia credenza che il lettore non esista”.



La realtà ci sfugge e il lettore,  tradito, ci abbandona. Perché questa crisi? Forse abbiamo dimenticato l’anima del nostro mestiere e reso inutile il nostro lavoro.

Per scrivere, notava il filosofo ed editorialista Pietro Barcellona, occorre guardare “l’apparente banalità del quotidiano che rivela, a chi è disposto ad ascoltare la voce degli avvenimenti, il senso profondo dell’epoca in cui ci tocca vivere”. “Per scrivere — gli fa eco Domenico Quirico — si scende nelle profondità insondabili dell’essere, il proprio e soprattutto quello degli altri. Scrivere, sì, appartiene al mistero”.

Solo recuperando questa concezione di giornalismo si può comprendere l’utilità del giornalismo, espressa in una battuta che, nel film “The Post” di Steven Spielberg, l’editrice del Washington Post Katharine Graham attribuisce al marito defunto: “La notizia è la prima bozza della storia”.

I fatti quotidiani, nella loro banalità o tragicità, sono la materia del nostro lavoro, ma noi dobbiamo essere disposti ad ascoltare la voce che da essi promana per capire il senso profondo del tempo in cui siamo immersi. La notizia diviene così il primo germe della storia, e si mostra utile al lettore.

L’esperienza straordinaria che si fa rileggendo negli archivi digitali dei giornali alcune grandi inchieste o reportage, per esempio, di Indro Montanelli o di Nino Milazzo, di Domenico Quirico o di Candido Cannavò è quella di sfogliare la storia: i fatti d’Ungheria del 1956, la tragedia del Vajont del 1963, la foresta dei Boko Haram, il terremoto del Belice del 1968 nel racconto di quei giornalisti diventano racconti capaci ancora oggi di parlare al nostro cuore e alla nostra ragione e di farci vedere oltre il velario che normalmente copre il nostro presente.

L’alternativa a questa esemplare pratica giornalistica è il teatrino delle notizie, che si limita a intrattenere il lettore con epidermiche informazioni contribuendo a renderlo vittima di sempre nuovi e più sofisticati regimi.