La campagna elettorale ha ridato prepotente e impetuoso slancio a un tema che non occupava così diffusamente il dibattito pubblico sin da quando Gianfranco Fini imprimeva al Movimento sociale italiano (Msi) la sua transizione in Alleanza nazionale: l’eterna lotta tra fascismo e antifascismo. 

Dietro ai fiumi di inchiostro e alle ore di trasmissioni televisive, si sono visti anche i fatti “bruti”: i pestaggi, le risse, i coltelli, le irruzioni. Parti ancora molto minoritarie e circostanziate di un cancro che già alberga nella nostra comunicazione politica: l’irrisione idiota di ogni rivalità. Occorreranno, se va bene, almeno due generazioni di elettori per filtrare finalmente la deriva becera e ignorante del linguaggio da comizio. La libertà di parola, lo ricorda la giurisprudenza italiana non solo costituzionale sin dagli anni Settanta, non è privilegio dei colti: spetta a chiunque, i limiti che insistono su di essa non dipendono dal titolo di studio di chi parla, scrive o canta o filma. Eppure, la libertà d’espressione poco c’entra con le campagne d’odio, con le stilettate al veleno per sembrare più forti. La politica italiana tutta si è sempre nutrita di questo veleno, sin dallo Stato ottocentesco: altri però erano gli scopi, i valori, i riferimenti. Oggi è rimasta solo l’offesa. L’offesa è pericolosa per la politica quanto lo è la morte di Dio per la filosofia: rischia di rendere contemporaneamente tutto permesso e tutto vietato, purché si abbia la forza di imporre un immaginario sociale. Temi aulici, probabilmente: l’autoriforma della politica è un po’ nottola di Minerva e un po’ domani di Conrad. 



Sul fascismo, però, è bene esprimersi chiaramente. Suscita molta, moltissima, perplessità che il tema dell’antifascismo sia oggi cavalcato, e con tanto favore di pubblico e di réclame, da parte di partiti, movimenti e singoli esponenti politici che non ne hanno mai fatto propria rivendicazione. Anzi: molti di quelli che in queste ore vediamo impegnati nella difesa dell’antifascismo democratico e della natura antifascista del patto costituzionale sono purtroppo gli stessi che per anni hanno tuonato contro la vetustà, l’inattualità, la superficialità, di ogni antifascismo. 



Cosa ha spinto costoro a riprendere un vessillo che essi stessi dichiaravano solennemente ammainato anni e anni addietro? Sicuramente, gioca un ruolo non da poco avere complessivamente tradito le ragioni sociali della propria rappresentanza politica. La tutela del lavoratore è divenuta tutela della libertà contrattuale del datore di lavoro. L’integrazione europea è divenuta obbligo di attenersi a meri parametri di compatibilità di bilancio. Persino la difesa della laicità si rivela debole, come ossequio generico a una visione esclusivamente statalistica della sfera pubblica. Rispolverare l’antifascismo, in questa veste così propriamente edulcorata e derivata, significa provare a riaprire breccia nei cuori, a riproporsi come garanti ufficiali di un patrimonio di valori. 



Sembra la riproposizione dell’arco costituzionale che ammorbò gli spunti più interessanti che venivano fuori da esso, a sinistra come a destra. La dinamicità dell’antifascismo originario (quello degli anni Trenta e Quaranta che era antifascismo minoritario, antiautoritario, ostracizzato quanto generoso) viene così ridotta a difesa dello status quo: il suo travisamento, l’ostentazione di quel travisamento. 

Certo, oggi in Italia ci sono partiti che non hanno mai rinnegato la propria appartenenza ideale alla storia fascista e che mai la negheranno, men che meno ora che hanno il vento in poppa dei loro slogan quasi da tutti declinati e declamati sia pure con parole spesso diverse. Ma chi ha soffiato affinché quel vento divenisse così propizio? Gli stessi che ora vogliono ritirare la corrente dalla propria parte? 

Una cosa, forse, si può dire a quelli che fascismo e antifascismo vivono nella realtà di ogni giorno e, pure in distonia col passato storico, almeno con abnegazione personale. Loro, sì, probabilmente delinquono rispetto non solo al codice, ma anche al senso umano, quando vengono organizzati accoltellamenti e spedizioni. Hanno però dalla loro l’immediata prossimità alle bandiere cui pensano di potersi richiamare. L’unico (sicuramente non richiesto) consiglio è quello di non rovinarsi la vita per diventare i piccoli mozzi di due bastimenti che non hanno alcuna possibilità di ibernarsi come se il mondo non fosse così profondamente cambiato nei decenni. Tra la flotta di chi scopre contraddizioni anche feconde e senso storico della Resistenza, con oltre settant’anni di ritardo, e quella di chi vuole riscoprirsi nostalgico di un tempo del quale c’è da avere poca nostalgia, non c’è né salvezza né redenzione.