Interrogarsi sulle reazioni emotive e soggettive, prima o invece di quelle ideologiche, di fronte al processo elettorale è un esercizio (nel senso antico e forte del termine) tutt’altro che ozioso. Sono certo di non essere la sola persona che nelle sue sue varie esperienze di votante e di non-votante ha sentito alternarsi in sé nel corso degli anni, e indipendentemente dallo specifico contenuto o non-contenuto del voto, sensazioni “laiche” di accresciuta vitalità (diciamo, un trionfalismo cittadino) con sensazioni “rituali”: come di fronte a un atto quasi troppo forte, che sfondi una misteriosa barriera.
“Quello vegetativo e quello sociale sono i due dominii dove il bene non entra. Cristo ha riscattato il vegetativo, non il sociale. Non ha pregato per il mondo. Il sociale è, irriducibilmente, il dominio del principe di questo mondo. L’unico dovere che si ha riguardo al sociale è quello di tentare di limitare il male. (Richelieu: La salvezza degli stati si trova soltanto in questo mondo)”. Così scrive Simone Weil nel capitolo intitolato “Il grosso animale” del piccolo libro intenso La pesanteur et la grâce, che io tradurrei La grevità e la grazia (esistono comunque varie traduzioni italiane del libro, alcune migliori delle altre). Si tratta com’è noto di un’opera pubblicata postuma da Gustave Thibon, il quale trasforma in capitoletti tematici secondo un ordine non cronologico (e con poche ma interessanti note a piè di pagina) appunti dallo stile aforistico che appartengono originariamente alla vasta raccolta di Quaderni della Weil. “Il grosso animale” richiama una lunga similitudine sviluppata dal personaggio Socrate nel libro VI della Repubblica platonica: e si riferisce in sostanza alla massa comunitaria, con tutti i suoi elementi buoni e cattivi (ma la Weil ne dà una definizione drammatica, ed enigmatica, scrivendo che il grosso animale è “il solo oggetto di idolatria, il solo surrogato di Dio, la sola imitazione di un oggetto che è infinitamente distante da me e che è me stessa”).
Il citato aforisma sul vegetativo e il sociale non è in-pertinente rispetto alle elezioni italiane; in particolare, potrebbe servire a riflettere su quel 30 per cento (pare) di aventi diritto al voto che hanno scelto, in vari modi, di non esprimerlo. Ma, sull’esempio di pensiero libero offerto dalla Weil, proviamo ad andare al di là degli “ismi” che hanno devastato il Novecento e che oggi sembrano essere ripetuti per inerzia — astensionismo, (anti-)fascismo, (anti-)comunismo, progressismo, conservatorismo, qualunquismo, sovranismo, populismo ecc. — e a interrogarci sul livello psicologico, o meglio spirituale, di base.
Se in mezzo ai nostri procedimenti sociali si erge qualche cosa come un idolo (il Grosso Animale), come liberarci o almeno distanziarci da esso? Come aggirare l’ostacolo e guardare in faccia, senza veli, la società? Le possibilità sono divergenti, forse opposte; e chi pensa e riflette contempla queste divaricazioni senza cedere al rancore di parte, ma anche senza ricercare a ogni costo un compromesso rassicurante.
Per rendersene conto basta rileggere quel breve passo. Una pensatrice geniale (e anche troppo assertiva) come la Weil ci dà un bell’esempio di come realizzare quel genere non facile che è l’aforisma. Un aforisma che si faccia rileggere dovrebbe essere un po’ enigmatico, e dovrebbe anche avere il coraggio di rischiare l’impertinenza o almeno l’apparente non-pertinenza — come per esempio l’apparizione improvvisa di quella frase più o meno apocrifa del cardinal Richelieu, la quale evoca (anche se a contrario) l’orgoglio francese per la tradizione del grand siècle che sopravvive anche in una scrittrice così spregiudicatamente modernista come la Weil (per fare un parallelo, pensiamo a come suonerebbe, nell’atmosfera così ben pettinata degli aforismi che imperversano oggi in Italia, l’irruzione di una frase di Guicciardini dentro il contesto di una riflessione di tipo religioso). Ma soprattutto, un vero aforisma deve realizzare un lungo viaggio nello spazio di un semplice paragrafo; e qui si viaggia — o si salta — da un’atmosfera di tipo gnostico (l’immagine della società come dominio luciferino, e quella strana frase su Gesù che non avrebbe “mai pregato per il mondo”) a un’atmosfera di impronta umilmente cristiana su come si debba “tentare di limitare il male”.
Ecco: in quest’aria post-elettorale ancora agitata, tutti noi — quelli che hanno votato votando, così come coloro che hanno votato non votando — siamo chiamati a interrogarci, andando oltre i cliché, non tanto sul modo in cui dovremmo camminare dentro la polis, quanto sul cammino che di fatto abbiamo già intrapreso. Stiamo cercando di raggiungere un “discernimento profetico” (come è stato detto di recente, con una frase molto bella), oppure ci occupiamo del tentativo di limitare il male? Entrambe le vie valgono la pena di essere percorse: basta essere consapevoli della scelta.