La Lettera “Placuit Deo” che la Congregazione per la dottrina della fede ha inviato a tutti i Vescovi della Chiesa cattolica non passerà inosservata. Mettendo l’accento su quelle due grandi tentazioni che hanno sempre caratterizzato la vita cristiana (pelagianesimo e gnosticismo) e che sono state fissate una volta per tutte come eresie, contro cui hanno combattuto da una parte Sant’Agostino e dall’altra la Chiesa nel medioevo e via via anche oltre, nell’età moderna e contemporanea, la Lettera evidenzia che  ancora oggi quelle due ombre sopravvivono. Si tratta da una parte di ritenere che “l’individuo, radicalmente autonomo, [possa] pretende[re] di salvare sé stesso, senza riconoscere che egli dipende, nel più profondo del suo essere, da Dio e dagli altri” e dall’altra di presentare “una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo. Essa consiste nell’elevarsi con l’intelletto al di là della carne di Gesù verso i misteri della divinità ignota”.



Certo, la Congregazione per la dottrina della fede mette in guardia: “la comparazione con le eresie pelagiana e gnostica intende solo evocare dei tratti generali comuni, senza entrare in giudizi sull’esatta natura degli antichi errori. Grande è, infatti, la differenza tra il contesto storico odierno secolarizzato e quello dei primi secoli cristiani, in cui queste eresie sono nate”. D’altra parte l’uomo contemporaneo, così spiritualmente anemico, nemmeno sarebbe capace di essere virilmente eretico. Si tratta piuttosto di un tran tran, di un andazzo vago, coltivato nella solitudine antropologica e talvolta alimentato dalla vaghezza di un’esperienza religiosa di cui sono responsabili in molti casi gli stessi sacerdoti, con la loro omiletica psico-sociolicizzante, emotiva, rassicurante. Si tratta di quella sorta di onanismo antropologico e spirituale in cui l’io è esploso spappolandosi, di quell’autoreferenzialità banale che ci fa necessariamente protagonisti (solitari) della nostra storia, di quella adesione ad un “tutto è presente” che ci strappa — come direbbe Paolo VI — da quella aurea catena misteriosa che lega gli uomini in un medesimo cammino di salvezza e ad un medesimo destino; si tratta di quel “Credo in un Dio, ma non credo nella Chiesa”, di quel riferimento ad un’entità astratta che guiderebbe il mondo. Perché, si sa, anche l’uomo più disorientato non può fare a meno di stupirsi della complessità del mondo. 



Insomma, due tentazioni davvero moderne, così in sintonia con il vuoto esistenziale e con la spiritualità liquida dell’uomo contemporaneo.

Si tratta, verrebbe da dire, di una dimensione della fede utopica che privilegia la dimensione del sogno e del sentimento, che ha più a che fare con la dimensione del benessere che con quella dell’esperienza cristiana, dell’individualismo in cerca di vaghe condivisioni contro una concreta esperienza di popolo dentro la Chiesa, casa dei peccatori in cammino verso la Salvezza.

Non posso allora dimenticare la grande lezione storiografica, religiosa e civile del mio maestro, lo storico Giorgio Rumi: “A ben vedere — scriveva Rumi — la Chiesa locale, e specificatamente la diocesi, è proprio il contrario di utopia. La prima per definizione comprende un preciso ambito territoriale: un luogo, una porzione di spazio su cui è radicata, in un rapporto che si distende per un lungo arco di secoli. Invece delle illusioni, il territorio; invece dei sogni, disincarnati e non di rado antiumani, la concretezza di un popolo, nei suoi dolori, fatiche e speranze. Come dovrebbe essere palese a tutti, la diocesi non è in nessun modo una circoscrizione burocratica e il vescovo non è un gestore di poteri, o peggio il feudatario di un satrapo lontano. La divaricazione della gnosi può continuare a lungo: invece dell’entusiasmo, il legittimo carisma; invece della separatezza, la comunione con Roma; invece dell’orgoglio, la fedeltà creativa. Viene così naturale ristabilire, nella pienezza della verità, un autentico legame col vissuto religioso di chi ci ha preceduti e che di quella esperienza ci ha lasciato innumerevoli tracce e significativi ammaestramenti”.



Le due tentazioni sono così moderne, dunque, perché offrono un labile appiglio ad un uomo solo, un uomo che — come diceva Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano — dopo aver provato l’ebbrezza di essere uscito di casa, non trova più le chiavi per rientrarvi. Un uomo bisognoso innanzitutto di una compagnia, di altri uomini che camminano sullo stesso sentiero, anelano alla medesima meta, si ri-conoscono come appartenenti ad comune luogo, operano per aggiungere all’aurea catena che forma la Storia della Salvezza anelli nuovi, sapendo che il presente, con le sue meraviglie e con le sue fatiche, ha dietro di sé un passato e un futuro davanti a sé. Insomma, operano.

Appartenere a una Storia: questo è l’antidoto ad ogni vaghezza del pensiero e perfino del cuore. Ai sacerdoti, cui la Lettera della Congregazione è destinata, la responsabilità di riprendere la Parola, di farla diventare carne, di trasmetterla — come diceva l’ateo Jules Michelet — alle pietre: “Dobbiamo toccare queste pietre con precauzione; camminare  leggermente, su questi lastroni. Qui si è svolto un grande mistero”. E rimettere al centro della vita cristiana il grande mistero della morte (l’omiletica funeraria quanti cedimenti ha concesso al sentimento e alla facile autocelebrazione-di-sé), la decisiva concretezza dell’esistere umano. Si tratta di riaffermare il vero, indissolubile realismo cristiano che, lungi dal dissolverci in una virtualità esistenziale, le dona la concretezza e perfino la bellezza del vivere non più soli.