Ognuno ha una propria, personalissima, costellazione di parole amate. Nella mia ha un posto speciale un avverbio che più comune non si può: “ecco”. È una parola tutta sorpresa per qualcosa o qualcuno che si impone improvvisamente; è una parola in cui riecheggia il colpo di un evento che inchioda. Ed è una parola, soprattutto, che esprime l’improvvisa e solare chiarezza di un oggetto del desiderio prima solo confusamente atteso. È così confuso, infatti, il desiderio fino a quando non gli appare ciò di fronte a cui dire: “Ecco”. “Ecco. Questo cercavo. Questo aspettavo”.



È accaduto così, ormai dieci anni fa: seguivo con assiduità e crescente interesse i corsi di letteratura teatrale italiana di quello che poi sarebbe diventato il mio professore, Fabio Pierangeli. Quel pomeriggio l’aria autunnale dell’aula è stata sferzata dalle parole, tratte dall’omonimo monologo del 1967, di Erodiade, la moglie del tetrarca Erode, il cui corpo è teatro della lotta tra l’antico e il nuovo, tra la religione degli dei lontani e quella del Dio vicinissimo annunciatole da Giovanni Battista, di cui si innamora e che fa, tuttavia, decapitare. Alla sua testa mozzata rivolge parole ora implacabili — “oscena idiozia di un Dio di carne e sangue”, “No, gli dei non si generano come uomini o cani” — ora dolcissime: “Mio cervo; muschio forte; valle verdissima e mia; mia pineta di gioia; rami grandi d’amore… Prendimi, se puoi. Ho voluto morire perché tu non c’eri più e perché, per me, senza di te non c’era più nessun senso, nessuna luce e nessuna speranza. Io non sono più Erodiade e nemmeno la sua parola. […] Per te e con te, sono l’umana bestemmia, l’inesistenza, la cenere, il niente”. Con queste vesti di carne e nostalgia mi si è fatto incontro per la prima volta Giovanni Testori.



Proprio come un amante infiammato dall’attesa, mi sono buttata a capofitto nel mondo testoriano: e, affondando, quanti altri ne ho trovati: Iacopone da Todi, Alessandro Manzoni, il Pitocchetto, Francis Bacon, i Sacri Monti, il lago di Como; ma, come solo i grandi amori sanno fare, tutto è entrato attraverso lo sguardo di Testori. Sguardo sempre originale, mai scontato; sguardo figlio di terra e pampurzini (ciclamini) e, insieme, di lontanissime altezze. Ho seguito Testori nelle peripezie della sua anima e, quindi, nelle peripezie dei suoi tentativi formali: narrativa, poesia, giornalismo, critica d’arte, pittura, teatro, perché tutto ha sperimentato nei suoi cinquant’anni di vita artistica, da quando, appena diciottenne, ha scritto un articolo sul pittore Giovanni Segantini, a quando, nel letto d’ospedale, a pochi mesi dalla morte, ha concluso il capolavoro del suo teatro, i Tre lai. Mai pago di una forma, sempre pronto a ripensarla e sempre libero di sbagliarla.



Sì, forse questo è uno dei doni più cari di Testori alla mia vita: la libertà di sbagliare, di mettere il piede in fallo: “Si ha il dovere di amare, e aggiungo, anche quello di sbagliare. Perché se si fa qualcosa, non si può fare a meno di sbagliare. Tutta l’arte è uno sbaglio: di grazia, di amore, di pietà”. Se si vive, si cammina, si tenta, si ama, non si può non sbagliare. Forse, solo uno sbaglio ci è chiesto di non fare: quando la vita chiama, quando la vita fa dire “Ecco”, a quell’ecco occorre rispondere. Occorre un “Sì, vengo”, un “Sì, mi lascio catturare e condurre fino a terre ignote e misteriose”, “Sì”, ed è la seconda grande parola della mia costellazione, “Eccomi”. La risposta a una chiamata. Quando la realtà attira, bisogna andare.