A quarant’anni dal rapimento e dalla tragica fine di Aldo Moro la sua lezione è sempre più attuale. La distanza storica dal contesto geopolitico in cui egli realizzò le scelte pagate con la vita, rende ora più agevole comprenderne le ragioni umane e politiche. Non c’è più l’ordine mondiale di Yalta, rappresentato da Augusto del Noce con l’efficace immagine di un mostro a due teste, condannate a insultarsi senza combattersi pena le reciproca distruzione (“Yalta ha generato il mostro dalle due teste, e queste due teste possono, o devono insultarsi, ma non di più; non dispongono di un corpo proprio, ma si alimentano della vita dello stesso mostro; distanti tra loro non possono incontrarsi; né possono, né intendono suggerire al mostro il suicidio”). Il successivo nuovo ordine globalizzato, per giunta, sorto per soddisfare le impellenze del mercato, già denuncia i segni di una nuova crisi, questa volta provocata dalle tensioni provenienti dalle indiscriminate operazioni finanziarie e militari poste in essere per la relativa affermazione.
Mutato il sistema geopolitico, diviene più agevole comprendere i tratti di un impegno politico giunto al martirio civile; un impegno che lascia trasparire un metodo dell’agire politico, che fu certamente condiviso fra chi ne favorì l’espletamento e che segna la differenza con la realtà odierna. Esso è consistito nella legittimazione dell’avversario politico, considerato espressione di una realtà di popolo di per sé degna di riconoscimento.
Fu proprio l’applicazione di quel metodo a mitigare in Italia la rigidità delle conseguenze derivanti dal sistema geopolitico di Yalta. Il vincolo della democrazia “bloccata” promanante da quel sistema, non fu mai tale da impedire l’effettivo sviluppo democratico del Paese. La presenza del più grande partito comunista all’interno dei paesi della Nato, per giunta parzialmente finanziato dall’Unione Sovietica, non fu avversata e discriminata, venendo piuttosto resa agibile in ambito istituzionale e sociale. Il divieto geopolitico di partecipazione del Pci all’esecutivo (la cosiddetta conventio ad excludendum) fu sostanzialmente aggirato a tutela delle specificità politiche nazionali; fu risolto nel trasferimento della gestione dell’indirizzo politico dal Governo al Parlamento: il primo rimase titolare della politica estera a tutela delle esigenze del patto atlantico; il secondo divenne promotore ed esecutore della politica interna, da definire fra maggioranza e opposizioni (cosiddetta democrazia consensuale). All’instabilità di governi deboli e rimessi alle oscillazioni dei partiti di maggioranza, corrispose la stabilità di un Parlamento forte, capace di assumere le decisioni principali con il contributo dell’opposizione (il cosiddetto parlamentarismo integrale).
Si trattò di una linea di sviluppo non casuale e dalle salde motivazioni. Sul fronte della Democrazia cristiana, essa prese le mosse dalle iniziali intuizioni di apertura della Chiesa verso la modernità, sviluppate negli anni Trenta da Maritain e Montini, per passare poi alla disponibilità al compromesso costituzionale, maturato in Assemblea costituente con il contributo realista di Moro, La Pira, Dossetti, ecc., sino ad arrivare alle politiche di sviluppo economico e sociale dei decenni successivi. Sul fronte dei partiti d’opposizione, tale linea essa fu prontamente colta da un approccio altrettanto realista dimostrato da alcuni dei relativi leader (Togliatti, Rodano, Berlinguer, ecc.).
L’esito di una tale linea di sviluppo avrebbe potuto consentire uno sblocco anche formale della precedente democrazia incompiuta. Il “compromesso storico” avrebbe potuto innescare una serie virtuosa di conseguenze sul piano internazionale e nazionale. Nel primo senso, avrebbe potuto costituire un’occasione di flessibilità del sistema geopolitico: una volta assicurata l’adesione italiana al patto atlantico, esso avrebbe potuto fare del Pci italiano, ormai scollegato da Mosca, il punto di riferimento della sinistra d’Occidente; e indurre l’Unione sovietica a intraprendere un cammino di riforme ben prima dell’era Gorbacev. Del pari, sul piano nazionale avrebbe potuto affermare un modello di convivenza originale, inclusivo e capace di realizzare il benessere sociale del Paese pur nelle contraddizioni della difficile trasformazione economica in atto: da agricola a industriale, ovvero — per riprendere Pier Paolo Pasolini — da contadina a consumista.
In tal senso, si trattò di una linea di cambiamento epocale, che però rimase incompresa e, dunque, avversata; basti pensare a quanto svelò la vedova Moro in Commissione parlamentare a proposito delle minacce sillabate da Henry Kissinger al marito: “Lei la deve smettere di volere il Pci nel governo. O la smette, o la pagherà cara”.
L’assassinio di Aldo Moro ha impedito il compimento della linea di cambiamento perseguita. Non che quel metodo di azione non sia stato più impiegato; basti pensare alla politica di equivicinanza (piuttosto che di equidistanza) verso i paesi del Medio oriente e del Mediterraneo, continuata da Giulio Andreotti nel decennio successivo e di recente attestata dalle ritrovate pagine del diario segreto di Arafat sulla vicenda di Sigonella. Tuttavia, sono stati gli stessi presupposti culturali, prima ancora che politici, di quel metodo, a essere stati resi impraticabili e a rimanere progressivamente senza interpreti e testimoni.
Lentamente il popolo è stato allontanato dalla politica e, con questa, dalla comprensione e dalla gestione degli interessi del Paese. Questi ultimi sono divenuti oggetto di decisioni riservate, prescindendo dai luoghi istituzionali e soprattutto dalle ragioni della politica. In tal modo, tuttavia, detti interessi sono entrati in conflitto senza più possibilità di mediazione. Se nel ’77 Giovanni Testori iniziò la sua collaborazione al Corriere con un articolo intitolato “La cultura marxista non ha più il suo latino”, con il quale accusava la progressiva trasformazione degli “atti rivoluzionari” in “atti bancari”, il seguito è stato ancora peggio: nessuna cultura ha mantenuto “il suo latino” e gli anticorpi culturali ed etici che sostanziavano il tessuto connettivo del Paese, sono stati svuotati di contenuto.
La seconda Repubblica si è esaurita in una contrapposizione senza fine, in un moralismo divisivo funzionale a celare la sostanziale espromissione del popolo dalla politica. Specialmente nell’ultimo decennio un Parlamento rappresentato in modo artefatto e illegittimo ha preteso sancire anche formalmente il tutto, brandendo un riformismo istituzionale ed elettorale che ha contribuito ad avvelenare la vita democratica. A trent’anni dalla fine della guerra fredda, pertanto, il “blocco” apparente della democrazia del dopoguerra si è risolto nel “blocco” effettivo delle condizioni di sviluppo economico e sociale del Paese; sicché a crescere è stata soltanto l’Italia del rancore fotografata dal Censis.
Eppure, proprio i risultati così imprevisti delle ultime elezioni politiche del 4 marzo, come del resto quelli delle passate consultazioni referendarie dello scorso 4 dicembre 2016, dimostrano anche qualcos’altro. Le fluttuazioni di voti dai precedenti partiti di Governo (Partito democratico e Forza Italia) alle nuove formazioni d’opposizione (Lega e M5s) esprimono anzitutto un elettorato libero dai precedenti steccati, prima reali e poi virtuali, posti al proprio consenso. Esse raccontano di un elettorato intenzionato a essere preso sul serio e a essere rappresentato, pena il diniego del proprio voto alle successive consultazioni.
Ecco perché occorre ritornare al rispetto della volontà degli elettori e restituire loro quella dignità del voto oltraggiata nei trascorsi decenni. Ecco perché occorre rispettare anche i partiti non organici alle maggioranze di governo, assicurando piena osservanza delle procedure parlamentari e democratiche (altroché la fiducia governativa sulle leggi elettorali!). In definitiva, ecco perché resta attuale la lezione di Aldo Moro.
Un’ultima notazione, questa volta quasi sottovoce, attiene al profilo umano dello statista e proviene dalla lettura dell’ultima lettera scritta alla moglie nell’ora estrema dell’esecuzione. In questa raccomanda di salutare tutti i suoi cari, “volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli”; e poi s’interroga sul dopo: “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo“.
Sicché, proprio quel richiamo al “volto per volto” invocato prima della morte nella prospettiva dell’eternità fa venire in mente, senza alcun’altra pretesa, le parole scritte da don Giacomo Tantardini in occasione della morte di don Luigi Giussani: “Nel breviario [del giorno della sua morte] si leggevano queste parole di papa Leone Magno: ‘Le porte degli inferi non possono impedire questo riconoscimento della fede, che sfugge anche ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo’. Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche della terra”.