Vi sono due momenti, nella vita e nell’opera di Pasolini, che paiono richiamarsi di continuo. Il primo è quello degli anni di Casarsa, in Friuli, paese natale della madre, in cui i due vissero stabilmente dal ’42 all’inizio del ’50; il secondo è quello conclusivo, della prima metà degli anni Settanta, segnato dall’intuizione della “mutazione antropologica” subita dagli italiani, fatta oggetto di numerosi articoli, confluiti poi nelle raccolte Lettere luterane e Scritti corsari. Le Poesie a Casarsa, di cui si accorse subito Contini, è uno dei libri più belli di Pasolini: scritto nel dialetto della riva destra del Tagliamento, di cà da l’aga (di qua dall’acqua) che mai era stato scritto; un dialetto naturalmente vivo e poetico, grezzo e dolce, pieno di una “scontrosa grazia”, avrebbe detto Saba. Il giovane poeta è influenzato dagli studi di filologia romanza (si sta laureando in lettere a Bologna) e soprattutto dall’eco dei poeti provenzali, ma i versi escono freschi e liberi, in un “paese di temporali e di primule”, per citare il titolo del libro curato da Nico Naldini, che raccoglie gli scritti friulani del poeta; vi si avvertono sullo sfondo i bagni nel fiume, le corse in bicicletta, le albe e i tramonti lungo la linea delle risorgive, dei canali che sfociano verso il mare. Leggiamo versi come questi, con la traduzione dello stesso autore:



Fontana di aga dal me paÍs.
A no è aga pÍ fres-cia che tal me paÍs.
Fontana di rustic amòur. 

(Fontana d’acqua del mio paese./ Non c’è acqua più fresca che nel mio paese./ Fontana di rustico amore.)

E poi, ancora :

No, tas, sin a Ciasarsa; jot li ciasis e i tinars
lens cha trimin tal rìul… 

(No, taci, siamo a Casarsa; guarda le case e i teneri alberi/ che tremano sul fosso…)    



Scoperta di una lingua incontaminata, marginale e pura, ma anche atto d’amore verso la madre, Susanna Colussi, figura centrale della sua vita e del suo universo psichico. Sono versi che potrebbero appartenere ad un rustico idillio del Nievo, se non fossero insidiati dai primi turbamenti omoerotici, destinati a diventare ossessivi. In quegli anni incontrerà Tonuti Spagnol, giovane contadino a cui si affezionerà, tanto da mantenere una corrispondenza fino agli ultimi anni; poi, divenuto autore di versi, lo menzionerà nel saggio sulla Poesia dialettale del Novecento (ora in Passione e ideologia). A Tonuti, custode fedele di memorie pasoliniane, scomparso pochi mesi fa, Verona, la sua città di adozione, renderà omaggio prossimamente. La vocazione pedagogica sarà centrale in Pasolini e lo accompagnerà per tutta la vita, fino agli ultimi anni, quando diventerà un “pedagogo di massa” (Golino); avvierà in casa una scuola di fortuna negli ultimi anni della guerra e della Resistenza: nel ’45, insieme ad altri amici, fonda l’Academiuta de lengua furlana



La sua passione pedagogica ha il pari in pochi autori del Novecento, tanto da far pensare a don Milani. Su tale tema ha scritto lucidamente Andrea Zanzotto: pur consapevole dei possibili danni dell’educazione (negli ultimi articoli arriverà a chiedere l’abolizione della scuola d’obbligo, fonte principale, insieme alla televisione, dell’omologazione imperante), egli sapeva “che tutto passava di là, che esisteva un ‘primato’ dell’educazione”. Tutti i suoi ultimi scritti, afferma il poeta veneto, potrebbero essere letti come frammenti di un discorso pedagogico: in Pasolini c’è stata pedagogia fino alla fine, “che è sempre, quella vera, evento e non parola”. E aggiunge Zanzotto che “per avvicinarsi a Pasolini, bisogna ripartire dai prati friulani e da quegli alba pratalia, la pagina di quaderno scolastico, su cui scorre la penna infantile attraverso l’antichissimo ritornello”.

Altri avvenimenti incombono nella quiete di Casarsa. Innanzi tutto la tragica morte del fratello minore Guido, partigiano azionista entrato in contrasto con i comunisti della brigata Garibaldi; questi ultimi avranno la meglio in un conflitto a fuoco nella malga Porzus, in cui cadranno Guido e altri suoi compagni. Nel ’45 si laurea in lettere con una tesi su Pascoli, con Calcaterra (ma il suo vero maestro degli anni universitari è Roberto Longhi). Dal ’47 inizia a insegnare in una scuola media: fu un insegnante appassionato e innovatore, capace di coinvolgere gli studenti in una aggiornatissima pedagogia attiva; “maestro mirabile”, lo definì due anni dopo il preside. Si iscrive al Pci, partecipa attivamente alla vita politica locale. Nel ’49 scoppia lo scandalo. Il professore sarà accusato di corruzione di minori e atti osceni su tre ragazzini durante una festa. Sarà l’evento traumatico che segnerà la fine dell’epos friulano: Pasolini dovrà lasciare la scuola, viene espulso per “indegnità morale” dal Pci. In casa, i rapporti col padre, militare di carriera, sono insostenibili: Pier Paolo e la madre fuggono a Roma, ospiti di uno zio, all’inizio del 1950.

La Roma di Pasolini sarà quella delle borgate di periferia, piene di squallore, di miseria, ma anche di incorrotta vitalità: al Friuli arcaico, cattolico e rurale farà riscontro la Roma sensuale, pagana, barocca. Pasolini ne rimarrà affascinato. I sensi di colpa per la sua condizione di omosessuale (lontàn frut peciadòur, “lontano fanciullo peccatore”), verranno gradualmente rimossi. Tutto ciò che in Friuli era represso e furtivo, anche se meravigliosamente furtivo, a Roma diventa libero e consentito. 

Tutto questo accade senza fratture profonde nell’animo del poeta. Avviene infatti che “il mondo friulano e il mondo romano sfumano l’uno nell’altro” (Siciliano). Vi è una profonda analogia tra i due mondi, in apparenza così distanti: la realtà contadina friulana e il sottoproletariato romano sono entrambi periferici, marginali, sacche dimenticate, per ora, dal progresso, entrambe depositarie di un senso vitale misterioso, legato a origini antichissime e perciò “sacre”. Così Tonuti Spagnol sfocerà in Ninetto Davoli, protagonista e “faccia” di tanti suoi film. 

Grazie a una capacità mimetica straordinaria, Pasolini acquisterà rapidamente gli strumenti linguistici che gli consentiranno di rappresentare quel mondo: nasceranno i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Gli anni Cinquanta, intensissimi, vedranno la pubblicazione delle poesie di La meglio gioventù (che raccoglie la produzione friulana), Le ceneri di Gramsci e L’usignolo della Chiesa Cattolica. Saranno anche gli anni del cinema: prima come sceneggiatore, poi nel ’61, l’esordio come regista con Accattone. Da lì in poi, sarà il cinema a dominarlo, a dargli successo internazionale e benessere economico, ma anche a procuragli decine di denunce. In pratica, non ci sarà film per cui non sarà trascinato in tribunale, compresi La ricotta e Il Vangelo secondo Matteo, che oggi ci appaiono come i massimi capolavori del cinema religioso del secolo scorso. Conoscerà e frequenterà i maggiori intellettuali romani, tra i quali Calvino e Moravia, ma sempre conducendo vita diversa e scandalosa. Paradigmatico il rapporto con Moravia, dal quale lo divideranno sempre più negli ultimi anni i giudizi sui cambiamenti della società italiana: in fondo, semplificando, potremmo dire che Moravia sta a Sartre come Pasolini a Camus. Questi ultimi sfondano ogni riduzione nichilista, presente nei primi, per rivendicare le ragioni più profonde dell’umano. 

Furono soprattutto le tesi pasoliniane sull’aborto, strenuamente combattuto in nome della sacralità della vita, a provocare le polemiche tra i due. In un articolo pubblicato nel ’75 sul Corriere della Sera, nell’edizione di Scritti corsari intitolato proprio Sacer, Pasolini rileva il cinismo del suo interlocutore: “non credi in nulla, la vita del feto è una romanticheria, un caso di coscienza su un tale problema è una sciocchezza idealistica”. Ed ancora, nel successivo Non aver paura di avere un cuore, scriverà, con chiarezza esemplare: “la società italiana di oggi non è più clerico-fascista: essa è consumistica e permissiva”. Ora è subentrata l’intolleranza reale dei falsi tolleranti, con l’imposizione di nuovi obblighi sociali, per cui “chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar”. Le società arcaiche, compresa quella fascista, “avevano bisogno di soldati, e inoltre di santi e di artisti mentre la società permissiva non ha bisogno che di consumatori”. 

Il nuovo potere, ben più pervasivo di quello fascista, che lasciò inalterata l’identità profonda degli italiani, non sa che farsene di religioni e di ideali. “Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del consumo”. Si è così giunti al capolinea del modello illuminista: i vecchi argomenti laici, illuministi, razionali ora “fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene”. Anche le stragi politiche traggono origine da questa degradazione, dalla “mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento della propria. La violenza criminale nasce dal “considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo”. Opponendosi a Calvino, Pasolini pensa che “non bisogna aver più paura — come giustamente un tempo — di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”.

(1 – continua)