Prosegue per l’Editrice Salerno l’edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli con il volume III/1 Teatro (Andria, Mandragola, Clizia), a cura di Pasquale Stoppelli (Roma 2017, 423 pagine, 46 euro). Potrebbe sembrare un paradosso che Machiavelli, fondatore della moderna politologia, teorico dell’arte militare, commentatore di Tito Livio, sia anche l’autore della Mandragola. E che con un’altra commedia, la Clizia, arrivi a sfiorare, sotto la parvenza di moralità, un tabù che solamente a fine Ottocento sarebbe stato affrontato nel dramma borghese.
L’autore del Principe si era formato al genere comico studiando e traducendo in età giovanile l’Andria di Terenzio, dei cui schemi drammaturgici si avvarrà nelle sue commedie, per evidenziare gli aspetti paradossali della realtà. Lo aiutano in ciò l’attenzione per il gioco delle passioni, per quella che Il Principe chiama la “realtà effettuale”, questa volta intesa come variabilità degli affetti e delle mire umane, e le profonde radici che la cultura machiavelliana affonda nella grande cultura volgare del XIV-XV secolo, che aveva rappresentato la realtà della vita in tutte le sue forme, senza censure né moralismi. Machiavelli anche nelle commedie si mostra incline a dissacrare ogni valore, con quel medesimo tono beffardo con cui egli affrontò le molteplici vicende della sua non semplice vita.
Come conclude l’Introduzione Pasquale Stoppelli, se la speculazione machiavelliana poggia sulla consapevolezza che utile e piacere sono forze dominanti dell’agire umano, le commedie dimostrano una fondamentale coerenza nel pensiero del Nostro. In fondo, “finanche il diavolo Belfagor“, trasferendosi sulla terra, “subito cominciò a pigliare piacere degli onori e delle pompe del mondo, e avere caro di essere laudato tra gli uomini” (Favola, 7).
Quel che cambia sono solo le prospettive: infatti, il denaro, necessario nell’esercizio del potere, è essenziale anche per soddisfare bisogni e bramosie dei semplici privati protagonisti delle commedie. L’avidità può spingere a tradire la patria o la parte politica: ma, in fondo, essa, nel microcosmo dell’azione scenica — che è riproposizione della vita quotidiana —, può indurre “a far commercio del proprio ufficio, come per esempio fra Timoteo è uso” (ibid.). Ingannare, a volte, è una necessità per chi regge la cosa pubblica: così è, con in più una significativa quota di piacere del tutto gratuito, nella Mandragola.
Il motivo per cui Machiavelli spicca anche come commediografo sugli autori coevi che hanno praticato il medesimo genere (leggere per credere le commedie ariostesche), sta nel fatto che anche la sua produzione teatrale si sostanzia di una complessità di pensiero derivante dalla lunga meditazione sulla natura, sui mores degli uomini, nel presente (attraverso l’osservazione), e nel passato (attraverso lo studio dei classici).
Accanto al volume delle Commedie, sempre per l’Editrice Salerno, negli “Studi e Ricerche per l’Edizione nazionale delle Opere” di Machiavelli, è disponibile un’ampia scelta di Letture Machiavelliane, di Paul Larivaille (Roma 2017, 284 pagine, 28 euro). L’autore ha insegnato lingua e letteratura italiana all’Università di Paris X – Nanterre e si è interessato anche di Tasso, di Ariosto e dell’Aretino. Di Machiavelli Larivaille si è occupato a più riprese: dapprima con La Vie quotidienne en Italie au temps de Machiavel (Paris 1979, trad. it. Milano 1984), e poi contribuendo, con l’introduzione, alla nuova edizione critica del Principe, curata da M. Martelli (Paris 2008).
Queste dieci Letture testimoniano il progredire dell’interesse di Larivaille per il segretario fiorentino, e lo stato dei dibattiti sull’autore. Si va da uno studio sui Confidenti machiavelliani – nominati e innominati – tra i “Primi ministri” di Cesare Borgia (pagine 15-38) a un curioso saggio “Delenda est civitas Pisarum”? Ghiribizzi intorno a un piccolo e dotto problema machiavelliano, a partire da una lettera di F. Casavecchia, commissario fiorentino a Barga, indirizzata al Nostro il 17 giugno 1509 (pagine 39-101).
Molto interessante è la Lettura VIII, dedicata al personaggio che, nel sentire comune, è la summa dei caratteri dell’Umanesimo: Lorenzo de’ Medici. Nello studio Sul ritratto machiavelliano di Lorenzo il Magnifico nel capitolo finale delle “Istorie fiorentine” (pagine 199-223), Larivaille sostiene che Machiavelli attenuerebbe, rispetto a Guicciardini, le responsabilità attribuite a Lorenzo della Congiura dei Pazzi, dalla quale “Lorenzo esce metamorfosato in un “principe civile” (pagina 217), in quanto questa cospirazione fa da spartiacque tra due fasi della vita del Magnifico. Prima della congiura, egli è ancora, per così dire, un “fanciullo”, desideroso di sottrarsi all’autorità di Tommaso Soderini e pronto a cogliere la prima occasione di affrancarsi dai suoi consigli per lanciarsi nell’impresa politicamente errata di Volterra; dopo di essa, è un uomo politico maturo.
Dieci letture di un maestro, insomma, per ripensare, o meglio, per rimeditare un classico imprescindibile della nostra tradizione.