La storia dell’Università Cattolica, ma si dovrebbe dire di qualsiasi università cattolica, può essere motivo, in questo inizio di millennio, di alcune riflessioni, che, senza pretesa di offrire risposte conclusive, meritano di essere sottolineate. Su due punti, almeno a mio parere, si potrebbero fare delle notazioni per avere, a partire dalla storia, qualche breve indicazione su problematiche di oggi: la prima riguarda il contributo delle università cattoliche alla formazione delle classi dirigenti, la seconda, il rapporto con la chiesa nazionale, e nel caso della Cattolica, quella italiana e in particolare con l’autorità ecclesiastica.
La nascita delle università cattoliche in Europa, con qualche eccezione, coincide con quella fase di straniamento rispetto al mondo del sapere che i cattolicesimi nazionali hanno sperimentato nella seconda metà del XIX secolo. La fondazione delle università cattoliche rappresenta, infatti, uno degli strumenti che i cattolicesimi intransigenti o ultramontani hanno individuato per superare questo straniamento.
Un tale contesto spiega perché la formazione della classe dirigente sia stata uno degli obiettivi perseguiti con più forza anche dalla Cattolica. In un contesto caratterizzato da cattolicesimi che si esprimevano in strutture fortemente identificabili e collegate da quello che fu definito collateralismo con gli strumenti più tipici della presenza sociale e politica. Un secondo elemento che vorrei sottolineare riguarda la strumentalità degli istituti universitari rispetto alla domanda di cultura del mondo cattolico che cercava e trovava in essi il mezzo più idoneo per soddisfare il desiderio di crescita del proprio ruolo sociale.
Si trattava cioè di un sistema fortemente bloccato, almeno nel senso che ciascuna delle componenti aveva un ruolo ben definito. La sua crisi va fatta risalire agli anni della contestazione studentesca e dell’accelerazione della secolarizzazione di cui, in Italia, i referendum degli anni Settanta e Ottanta furono un primo vistoso segnale. Ma il fenomeno è europeo, e, come tale va riguardato, senza lasciarsi fuorviare dalla percezione di una eccezionalità italiana.
A distanza di qualche decennio, quel mondo appare lontano. Per comprendere la radicalità del mutamento intervenuto, ci si potrebbe rifare alle affermazioni di papa Francesco, nella Veritatis gaudium, la recentissima costituzione apostolica sulle università ecclesiastiche, nelle quali, riprendendo alcuni giudizi della enciclica Laudato si’, osserva che “il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade. Questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della formazione accademica e dell’indagine scientifica, l’impegno generoso e convergente verso un radicale cambio di paradigma, anzi — mi permetto di dire — verso una coraggiosa rivoluzione culturale”.
Il ruolo delle università cattoliche nella formazione delle classi dirigenti non può prescindere dalla sua contestualizzazione e dalla consapevolezza che il mondo dei movimenti cattolici, come li abbiamo conosciuti nel secolo scorso, era collegato alla forza, anche nella “narrazione”, della presenza di un “paese reale” che voleva essere parte del “paese legale”.
Quanto al secondo punto, più direttamente collegato alla vicenda italiana, a mio parere, non si può prescindere dal fatto che la Cattolica ha avuto, ed ha, una governance duale, l’Istituto Toniolo e il consiglio di amministrazione, con una netta prevalenza del primo, che portava Gemelli a concludere che “in casi estremi [l’Istituto Toniolo] può mettere l’università nella condizione di non poter funzionare negandole i fondi”.
Le personalità che hanno composto questi organismi inducono l’osservatore a concludere che, nel corso degli anni, al sostanziale immobilismo del primo, favorito anche dalla nomina a vita dei suoi membri, almeno fino alla riforma dello statuto della fine del secolo scorso, e dal sistema della cooptazione, ha corrisposto una maggiore dinamicità del secondo, anch’esso, tuttavia, condizionato dal fatto che il Toniolo nominava e nomina la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione dell’Università.
A mostrare che i problemi di rapporto con l’autorità ecclesiastica erano presenti già in anni lontani, bastano le parole del cardinale Montini all’assemblea plenaria (si trattava, malgrado la denominazione, di un’assemblea di venticinque persone) della Cei del 1961, poco dopo la morte di Gemelli. Reagendo alle preoccupazioni espresse in quella sede, l’arcivescovo di Milano osservava che “Gli ecclesiastici che sono nell’Istituto Toniolo (egli stesso lo era dal 1957), dal quale l’Università dipende, hanno talvolta funzione poco più che decorativa. Inoltre essa è in mano ad un Istituto Secolare. Sono laici degnissimi, ottimi. Ma si sono impossessati loro, e solo loro, della direzione. Sono deferentissimi, ma laici. Potrà continuare così? Sarebbe bene che noi dicessimo di voler essere un po’ più presenti”.
Per la prima volta compare la volontà di coinvolgere come soggetto che partecipa alla governance dell’università l’episcopato italiano e l’istituzione che lo rappresentava. E con i nuovi statuti che daranno alla Cei una configurazione simile a quella che conosciamo, cioè di assemblea di tutti i vescovi, in seno ad essa sarà istituto un comitato per l’Università Cattolica.
Il variare, sia pur lento, dei componenti del Toniolo conferma questa evoluzione. In particolare, credo vada messa in rilievo la presenza di mons. Filippo Franceschi negli organi di governo della Cattolica. Si tratta del primo vescovo non milanese presente nel Toniolo. Per la sua biografia, che lo vede laureato in Cattolica, poi assistente nazionale della Giac negli anni della riforma dello statuto dell’Azione Cattolica e per il suo stretto collegamento con mons. Bartoletti, allora segretario della Cei, costituisce un segnale non irrilevante dell’intervento dell’episcopato italiano nel governo dell’università, che avviene non senza il diretto coinvolgimento del pontefice regnante, della cui volontà mons. Bartoletti era attento interprete. Nominato nel comitato del Toniolo e nel consiglio di amministrazione nel 1975, vi rimarrà sino alla morte avvenuta nel 1988. Si tratta di una scelta che, per la formazione e la storia di mons. Franceschi, segnala la continuità della politica montiniana di volere nella governance un equilibrio tra presenza della Santa Sede e presenza della Cei. Agli occhi di un osservatore attento, tuttavia, non può sfuggire, almeno fino agli inizi dello scorso decennio, anche un certo immobilismo negli organi di governo e in quelli accademici, dal quale l’università è uscita molto lentamente, a causa della previsione dello statuto della Cattolica, approvato nel 1996, di applicare l’obbligo di non superare i tre mandati solo successivamente alla sua entrata in vigore, un fatto che ha portato nelle facoltà ad una continuità nelle presidenze prolungatasi talora per un trentennio, sino a questo secolo. Anche nel Toniolo la fine della nomina a vita nel comitato, avvenuta alla fine del secolo scorso, ha sbloccato posizioni che, talora, risalivano agli anni Cinquanta. Pensare che la dialettica anche forte tra le associazioni e i movimenti presenti tra gli studenti e i docenti sia di per sé espressiva di un intervento nel governo della Cattolica, mi sembra così del tutto fuorviante.