Ancora una volta Mark Zuckerberg si è affidato ad un lungo post su Facebook, in risposta allo scandalo, ormai noto, di Cambridge Analytica.

Tramite un’applicazione sviluppata da un ricercatore di Cambridge sarebbero stati raccolti i dati di circa 50 milioni di profili Facebook, sfruttando, a loro insaputa, la rete di amici di 270mila utenti che hanno scaricato la app. I dati sono stati condivisi con Cambridge Analytica, la società fondata dallo statunitense Robert Mercer, specializzata nel raccogliere informazioni dai social network, elaborando modelli psicometrici di analisi comportamentale e della personalità degli utenti social. Questo set informativo sarebbe stato successivamente usato per influenzare le elezioni americane, attraverso una propaganda-ombra per orientare le scelte di voto dei cittadini.



Il tono del post di Zuckerberg sembra ora assai diverso rispetto agli orizzonti che dischiude normalmente all’inizio del nuovo anno: “Il punto di partenza per un maggior impegno civico — scriveva ad esempio l’anno scorso — nell’attuale processo politico è quello di sostenere il voto in tutto il mondo”, pensando alla comunità globale (Facebook) come ad una specie di esploratore di modi di prendere decisioni su larga scala, grazie alle sue infinite interconnessioni, quasi come un’unica grande nazione. L’assunzione di responsabilità di oggi da parte di Zuckerberg per quanto successo, l’elenco delle misure adottate dal 2014 (in sintesi policy più rigide per gli sviluppatori di app e maggiore trasparenza su quanto scaricato dagli utenti) e la riduzione dell’intera vicenda ad un incidente di percorso, quasi fisiologico, suonano come una clamorosa retromarcia, dettata più dal timore di perdere prestigio, potere (e, naturalmente, soldi) che da una reale preoccupazione antropologica.



Benché, nel caso specifico di Cambridge Analytica, non sia facile e forse neanche possibile stabilire un nesso causale tra il furto di dati e i suoi effetti elettorali, il problema serio è, a mio avviso, a monte di tutta la vicenda. Non esiste un uomo se non all’interno di un contesto relazionale e, come in ogni relazione, non può muoversi senza lasciare una traccia: esco di casa, percorro un tratto di strada, incontro delle persone, mi fermo a comprare le sigarette al bar, a bere un caffè, scambio due chiacchiere… Cosa sto facendo? Mando segnali che, in una comunità virtuale, sono tracciati, custoditi in cloud e, all’occorrenza, utilizzati per stimolare comportamenti o azioni, così come un’accurata radiografia consente al medico di intervenire sul paziente. Nel bel libro Cambio di paradigma, Mauro Magatti ci aiuta a capire la portata di tutto questo con un paragone: la materia prima, che nell’economia tradizionale è (era) il petrolio, viene oggi sostituita dai dati, i big data, attorno ai quali si sviluppano raffinate strategie di marketing. Idee, passioni, gusti, scelte, sogni, decisioni, commenti, “like” postati sui social da miliardi di persone e sapientemente tracciati con algoritmi più o meno complessi, formano realmente la materia prima di nuovi modelli di business. Basta pensare al più noto motore di ricerca, Google, in grado non solo di darci le informazioni che cerchiamo, ma anche di selezionare quelle che non cerchiamo in base al nostro profilo, per suscitare — ad esempio — bisogni che al momento non sentiamo; oppure Amazon che, con la stessa metodologia di Google, organizza il mondo intero come un grande magazzino, dove il confine tra produttore e consumatore diventa labile, praticamente inesistente.



Non che tale situazione sia esclusivamente un portato delle nuove tecnologie: il concetto di manipolabilità delle reazioni umane ha radici piuttosto lontane e, a mio parere, è stato analizzato con incredibile lucidità da un pensatore razionalista del Seicento, Baruch Spinoza, sia pure con un linguaggio distante da quello delle scienze sociali contemporanee. 

La sua Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (“more geometrico demonstrata“) rappresenta un grande sforzo di dedurre la natura umana da alcuni assiomi elementari fino ai suoi terminali. Scrive Spinoza a proposito degli affetti: 

“Sembra che la maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini non trattino di cose naturali, che seguono le leggi comuni della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. […] Credono che l’uomo turbi, piuttosto che seguire, l’ordine della natura, che abbia un’assoluta potenza sulle proprie azioni e non sia determinato da nient’altro che da se medesimo. […] Nella natura non c’è niente che si possa attribuire a un suo vizio; la natura è infatti sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire una e medesima dappertutto. […] Dunque gli affetti di odio, ira, invidia, ecc., in sé considerati, conseguono dalla stessa virtù e necessità della natura, come in altre cose singole”.

Spinoza si fermava alla necessità della natura come un oggetto da contemplare e da comprendere per raggiungere lo stato di quiete e serenità a cui in fondo anelava, ma da qui alla manipolazione degli affetti originali il passo è breve e, con l’invenzione della rete, in crescita esponenziale.

A mio parere, ci troviamo proprio di fronte al paradosso più enigmatico della nostra epoca: nata sotto il segno della libertà, della liberazione da ogni tipo di legame, o, capovolgendo il senso delle parole di Spinoza, della capacità di turbare l’ordine naturale, rischia di risolversi in una delle più insidiose schiavitù.