Silenzio pieno di realtà a cui semplicemente guardare. Silenzio di attesa e di confidenza, di preghiera e di compassione: tutto parte dalla concentrazione dell’io nello spazio della memoria. Dal ricamo di parole antiche, che grondano di sovrana essenzialità, si distilla la forza oggettiva di un fatto ripercorso frammento dopo frammento, davanti al quale si sosta ammirati.
Si fatica a restare indifferenti. Il cuore è punto sul vivo e dalla sua fresca energia ridestata si è accompagnati a entrare pian piano nelle fibre più segrete dell’evento che ha aperto la strada al dono della salvezza per tutti. È lo stupore di una grazia da cui ci si ritrova investiti. Grazia da riconoscere, con cui riconciliarsi. Grazia che passa attraverso il segno oggettivo di un rapporto da stabilire, un affetto da stringere, entrando in un dramma che sembra disegnato apposta per immedesimarsi nella sua traccia esigente, dove si è sollecitati a diventare una cosa sola con una presenza che ci viene incontro e si impone, dentro un abbraccio in cui lasciarsi avvolgere.
Tutto ciò sta racchiuso nella musica sacra di Bach con l’intensità acuta di una creazione geniale. È la potente anima ispiratrice delle sue Passioni, dei suoi oratori a sfondo liturgico, delle sue trascinanti, a tratti entusiasmanti, cantate. Queste composizioni Bach le aveva concepite per i fedeli luterani di Lipsia e dintorni nei primi decenni del Settecento. Ma è un genere di musica, a sostegno del canto della voce umana, che può tornare a contagiare con lo stesso ardore dell’inizio chiunque si metta in ascolto nell’oggi del nostro presente: basta l’esile spiraglio di una minima sete di autenticità, di verità e di bellezza.
La spinta all’identificazione con la fisicità del destino umano di Cristo è l’asse intorno a cui si strutturano entrambe le Passioni di Bach sopravvissute, da quella secondo Giovanni del 1724 alla “grande Passione” secondo Matteo del 1727. Non si commemora qui una sublime vicenda di un passato lontano: ci si inoltra sui sentieri di una riattualizzazione che spezza ogni distanza di estraneità, aderendo a un Mistero da rivivere come se riaccadesse di nuovo per noi, di cui ognuno è chiamato a essere attore che si lascia provocare, reagisce, conforta, mendica, implora. Si assiste alla macchinazione dei complotti orditi per spegnere l’annuncio della Redenzione che scardinava i riti dell’Antica Alleanza. Si passa dai dialoghi dell’ultima cena alla cattura nell’orto degli ulivi. In compagnia di Pietro si trascorre da una stazione all’altra dell’atroce processo inflitto all’Innocente ingiustamente condannato a morte. Ci si affianca a Cristo in persona innalzato sulla croce, che esala l’ultimo soffio di vita e consegna il suo spirito per amore gratuito rivolto alla povera umanità peccatrice. Tutto è richiamo a ricalcare i medesimi passi della Vittima sacrificata per noi sulla nuda roccia del Golgota: l’immedesimazione comincia dalla volontà di seguirLo in uno slancio di totale fiducia amorosa, come stupendamente ci indica la Passione secondo Giovanni contemplando i due discepoli che si accodano al macabro corteo delle guardie romane e dei servitori dei giudei, impegnati a fare da scorta al Divino Maestro, legato come un criminale, per condurlo da Anna. Il contraccolpo è il canto del soprano che esplode con un impeto fuori dal comune: “Anch’io Ti seguo con passi gioiosi e non Ti lascio, mia vita, mia luce. Segna Tu il passo e non smettere di tirarmi, di spingermi, di pregare” (n. 9).
È d’altra parte notevole che, introducendo al cammino doloroso della via della croce, la tragedia di una pena che farà scorrere il sangue a fiumi non si chiuda sul macabro registro della commiserazione. L’uomo salvato dalla passione e dalla morte di Cristo invoca di poterlo seguire fino in fondo, non può abbandonarlo al suo duro destino. Ma non esita a farlo se non con passi illuminati da una letizia che squarcia il velo di ogni pessimismo ripiegato sulla miseria dei limiti e delle fragilità umani. Le lacrime e il sangue dell’annientamento sono già attraversate dalla forza risanatrice della vita che risorge. Dal dolore, si apre il transito pasquale alla gioia di un nuovo essere trasfigurato.
La simbiosi del dolore e della gioia in bilico tra la morte che chiude la corsa del tempo e il fascino dell’eterno che benedice i rinati dalla fede in Cristo riemerge con identica evidenza nella serie delle cantate di Bach. Lo spettro del negativo è totalmente riassorbito nella ricchezza polifonica del tutto cristiano che ha al centro la misericordia di Dio lanciata verso il continuo recupero dell’uomo bisognoso di aiuto. Il prorompere vittorioso del miracolo della risurrezione di Cristo resta l’approdo finale e il positivo dilaga da ogni lato. Affiora per esempio nell’ebbrezza delle vergini sagge ammesse a gustare per sempre le gioie del banchetto con lo Sposo che le accoglie nella sua beatificante dimora (Wachet auf, ruft uns die Stimme, BWV 140). Alla serietà ostinata di voler condividere senza sconti le sofferenze del Redentore schiacciato dal peso della croce e immolato sul patibolo del santo legno (Ich will den Kreuzstab gerne tragen, BWV 56), fa da contrappunto il sogno generoso di esaltare la bontà infinita di Dio in ogni angolo della Terra (Jauchzet Gott in allen Landen, BWV 51). L’Alleluia trionfale che chiude questa cantata si intreccia con il fuoco della passione missionaria di BWV 147, che chiama “il cuore e la bocca, gli atti e la vita intera a portare testimonianza per Cristo, senza paura né ipocrisia, del fatto che egli è Dio e Salvatore” (Herz und Mund und Tat und Leben: “Mio Salvatore, rivolgi su di me il tuo sguardo di misericordia… Io voglio proclamare la mia fede… Il mio cuore brucia senza tregua dell’amore per Te”, unica vera “consolazione del cuore”, “tesoro e delizia della mia anima”).
Se lasciarsi raggiungere dalla tenerezza che spalanca alla vita nuova del Risorto è l’ultima e definitiva parola intorno a cui si decide la storia del mondo, si capisce allora come mai la dolente rivisitazione della “guerra straordinaria che oppose la morte alla vita”, messa a tema della solenne cantata BWV 4 (Christ lag in Todesbanden), scaturisca fin dall’inizio dalla certezza del ribaltamento pasquale. La Pasqua che irrompe spazza via la paura di ogni miseria e il buio del più nero peccato, facendo risuonare, alla fine di ogni singola strofa, le molteplici variazioni di un interminabile “Alleluia” di fiducia e di speranza: “Cristo giaceva nei lacci della morte, consegnato per i nostri peccati. Egli è risorto e ci ha ridonato la vita. Di questo noi dobbiamo gioire, lodare Dio ed essere a Lui riconoscenti, e (per questo) cantare: Alleuia, Alleluia”.