“De la crudel morte del Cristo ogn’hom pianga amaramente… molt’era trista sancta Maria quando il suo figlio en croce vedea, cum gran dolore forte piangea, dicendo: trista, lassa, dolente”. Affiorano alla mente questi versi sorgivi della letteratura italiana, tratti dal Laudario di Cortona, mentre si muovono lentamente i passi davanti alla lunga sequenza della Via Crucis di Gaetano Previati, che torna visibile al pubblico dopo 50 anni e dopo un accurato restauro, in una mostra al Museo Diocesano di Milano fino al 20 maggio.



L’occasione, oltre al tempo quaresimale, è l’acquisizione per lascito testamentario di una splendida opera (“La via al Calvario”) del maestro ferrarese, in cui la processionale ascesa delle pie donne al Monte del Dolore è espressa con rugginoso cromatismo e fine tocco filamentoso e trascina l’animo di chi guarda a condividere la salita verso il dramma della Croce.  Per celebrare questo evento si sono mosse dai Musei Vaticani anche le grandi tele della Via Crucis che Previati — senza che alcuno gliele avesse commissionate, ma solo su impulso interiore — realizzò tra il 1901 e il 1902. 



Lo scuotimento spirituale che deve aver avvertito Previati verso questo soggetto sacro si trasmette magneticamente al visitatore anche grazie all’allestimento (a cura di Micol Forti e Nadia Righi) che per la Via Crucis segue d’altronde il solco tracciato dallo stesso Maestro nelle prime esposizioni d’inizio secolo. Le dimensioni importanti dei quadri e la loro sequenzialità inerente al tema (14 stazioni di uno stesso binario) assimilano esteriormente l’opera ai fotogrammi di un cortometraggio su grande schermo, il cui passo di proiezione e la cui durata di fruizione non sono però unici per tutti, come al cinema, bensì variabili individualmente a seconda dei sommovimenti e delle risonanze provocati nello spettatore. Di fronte alla dominanza del rosso (in 8 stazioni su 14) della veste di Cristo, disfatto dalla fatica fisica e dal dolore dell’anima, si riaffaccia alla memoria l’espressione “d’ogne parte fu insanguinato” della succitata lauda, come pure, mirando all’incontro degli sguardi tra Cristo e sua madre (IV stazione), si rilegge, con spessore emotivo tutto a un tratto aumentato, l’invocazione straziata “figlio bianco e vermiglio” coniata secoli prima da Jacopone da Todi.



Non è, questa di Previati, opera gentile e gradevole, piuttosto è urtante e spinosa, vi si avverte il raggelante vento espressionista del nord, è un urlo muto, meglio, un mugolio angosciato, che cattura sì con la sua iconica potenza ma che poco concede a considerazioni estetizzanti. E, anzi, vien da dire che proprio lo sfiguramento somatico, la disarmonia dei corpi, aprono all’universalità di quel che viene ritratto, perché quella vicenda drammatica di flagello e di abominio dell’umano, che lì raggiunge il suo culmine, riguarda chiunque in ogni tempo. 

Altre parole risalgono dai ricordi appetto a queste immagini fuoriuscite da un pennello intinto in una inesplicabile foga creativa (non sappiamo perché Previati abbia dedicato tanta fatica a questo impegnativo ciclo che, se non altro per via delle dimensioni, non poteva essere destinato a un utilizzo devozionale chiesastico), che prolunga il suo trascinamento sulla tela quasi a non volersene staccare, a voler esaurire tutte le potenzialità espressive di ogni singola pennellata, miscelando con mirabile maestria un senso di sgomenta immobilità con un lento, costante, intimo moto, come solo certi registi sanno fare coi piani sequenza: sono le parole di Charles Péguy, anch’esse, stilisticamente, misterioso, contraddittorio invito a soffermarsi senza mai fermarsi, a sostare muovendosi con passi cadenzati, a scrutare con speranza il fondo del mistero facendosene abbracciare: “Lui solo poteva gridare il clamore sovrumano; Lui solo conobbe allora quella sovrumana desolazione (…) E lui gettò il grido che risuonerà sempre, eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai, eternamente. In nessuna notte. In nessuna notte del tempo e dell’eternità”.

Ed è nella piccola porzione di cielo striato di giallo che occupa la parte superiore delle tele che Previati impasta la sua speranza, culminante nel bagliore della Resurrezione nella stazione XIV della sepoltura. Un cielo che, se non è in grado di rischiarare il buio di alcuna scena del cammino della Croce, tuttavia la scena non l’abbandona mai, restando sempre visibile all’orizzonte. 

Nell’intensità della Passione presentata in questa piccola mostra, semplice e lucente come un gioiello ben tagliato, è suggerita un’estetica del silenzio contemplativo e del raccoglimento pensoso, che si impone sulla spasmodica ed estenuata ricerca di canoni di perfezione formale i quali, come ogni costruzione umana, sono imperfetti, mutevoli e talora anche ingannevoli.  

La bellezza che salva è l’amore che condivide il dolore, sembrano sussurrarci qui Gaetano Previati e tutti coloro che hanno lavorato per rimettercelo davanti agli occhi e al cuore.