Tor Bella Monaca, 37mila abitanti, il quartiere più giovane di Roma, ma anche uno dei più poveri: moltissime le famiglie che vivono in quella che viene definita “situazione di vulnerabilità economica e sociale”. E in una zona estremamente periferica del quartiere, sorge la più grande baraccopoli rom d’Europa: 220 famiglie, 331 bambini, dei quali frequenta regolarmente la scuola solo il 16 per cento. È in questo contesto che nasce il progetto “Mondi di mamme” destinato a mamme italiane e straniere, rom e non rom, pronte a confrontarsi in incontri mensili guidati da Piero Vereni, antropologo dell’Università di Roma Tor Vergata, su cosa voglia dire essere genitori oggi: difficoltà, occasioni, sfide. Tanti i volti che hanno deciso di offrire la propria storia a persone sconosciute, diverse, lontane; e tanto lo stupore dinanzi alla potenza della narrazione condivisa che ha svelato quella comune umanità bisognosa di fronte alla quale il lontano improvvisamente si fa vicino, il diverso di schianto simile. Ascoltare queste storie è un modo vero, non retorico, per vivere l’8 marzo.



D., donna rom sui generis, sposata da più di vent’anni con un italiano, lavora ogni giorno per i diritti dei rom, soprattutto dei bambini: che possano andare a scuola, imparare a leggere e a scrivere, stringere amicizia con nuovi compagni. A volte c’è da combattere con le famiglie; a volte, però, quello che dovrebbe essere l’alleato mostra il suo volto oscuro: “Non te li prendono”, racconta. Una volta si è presentata in una scuola con otto mamme per iscrivere i bambini e la direttrice, spaventata, l’ha subito messa in guardia: “Noi non abbiamo posto. E poi voi non avete tutti i documenti”. “Chi l’ha detto, signora, che noi non abbiamo i documenti? Noi ce li abbiamo… Guardi”. Ognuna delle otto donne ha mostrato i documenti necessari. Ma non è bastato: la burocrazia ha rami frondosi e ben ci si può nascondere chi ben la conosce: “Noi non abbiamo tutti questi posti. Sa, dobbiamo vedere le liste, le classi…”. Dopo la minaccia di denunciare il tutto, due bambini riescono ad essere ammessi a frequentare: “Non vedevano l’ora di andare a scuola!”. Ma il pensiero di D. si sofferma poco sul male, corre subito, agile, a un’altra scuola, a un’altra direttrice, “una donna bravissima, la prima ad entrare e l’ultima a uscire”, che di bambini ne ha accolti sessanta.



I., invece, è arrivata più di dieci anni fa dall’Est Europa, dove giovanissima è rimasta orfana di genitori molto amati ed è stata abbandonata e ostacolata dai parenti che avrebbero dovuto sostenerla. Ci racconta di M., sua figlia, della gioia impetuosa di fronte al miracolo della sua presenza — non osava nemmeno più sperare —, e lo smarrimento per la scoperta di un dono ferito, già ferito. “Quando ho scoperto che M. non aveva la mano, è stato un duro colpo. Mi hanno detto che avevo tempo per abortire, ma io non volevo. Non sapevo se gli altri organi erano a posto. Desideravo tantissimo che nascesse, tantissimo, ma pensavo: starà male? Come vivrà? Come l’erba? Ma io volevo tenerla”. I., sola, non aveva un volto con cui condividere dubbi e decisioni. Ma di un volto si ha pur bisogno e allora ha cercato quello della sua dottoressa. Ad agosto, però, è in ferie. Viene indirizzata a un consultorio perché “lì c’è un ginecologo”. L’accoglienza non corrisponde certo all’attesa. “Che vuoi?”. Racconta la sua storia, la sua preoccupazione. “Vai in ospedale, allora!” “Ma io non mi sento male. Io non sto male. Io voglio solo parlare. Voglio solo qualcuno con cui parlare… qualcuno che mi aiuti, che mi dica…”. “Lo psicologo non c’è. Torna a settembre”. I. racconta di aver pianto lungamente uscita da lì, “per come mi hanno trattata”. Poi ci sono stati altri volti, altri sguardi, come quello del professore dell’ospedale a cui viene affidata dalla sua ginecologa: la segue nelle analisi, negli esami, nei dubbi. E alla fine: “La facciamo nascere. La facciamo nascere”.



Due storie, ma tante se ne potrebbero — e forse dovrebbero — raccontare, di donne che non campeggiano sulle locandine per le celebrazioni, ma che nascondono, nella loro invisibile normalità, scelte e sacrifici e battaglie che hanno un po’ dell’eccezionale. E che ci scaldano, in questi scampoli d’inverno, soprattutto per la trama delicata di bene che ci offrono. Le storie sono un intrecciarsi di volti, di incontri. Tutte le storie, ma soprattutto le storie buone. Una rete di bene costruisce il Bene, che non si cala dall’alto, dal “sistema”, così, all’improvviso, ma si costruisce volto dopo volto, sguardo dopo sguardo. E spesso proprio di sguardo si tratta. Il contributo al bene comune lo si pensa, quando lo si pensa ché è già un bel pensare!, come chissà quale prodezza da film fantascientifico, chissà quale atto eroico. Forse perché siamo tanto abituati a ritenere “concreti” i bisogni misurabili: “Quanti posti?”, “Cosa vuoi?”. Invece spesso, molto più spesso di quanto non si pensi, il bisogno cosiddetto concreto è espressione di qualcosa di più ampio, è la richiesta di una condivisione: “Non volevo un medico o un ospedale. Volevo soltanto parlare. Qualcuno con cui parlare”. Uno sguardo amico, amico a te, prima che al tuo bisogno, uno sguardo umano, “di simpatia totale”, direbbe Pavese. E ogni minuto, ogni metro può ospitare questa simpatia umana. E i fiori che ne nasceranno. 

Ah, M. è una bambina bellissima.