Nelle Chiese cristiane (non solo in quella cattolica) il vescovo è il responsabile di una chiesa locale ed è considerato successore degli apostoli. La parola “vescovo” viene dal greco epískopos, che letteralmente significava “sovrintendente”, e fu ripresa in latino con episcopus. Tanto per il vescovo quanto per il prete (da presbyter) il latino ha mantenuto dunque il termine greco, benché la prassi usuale nella primitiva Chiesa di Roma fosse quella di sostituire i termini greci con corrispondenti termini latini. Le ragioni di questo sforzo sono intuibili: per quanto il greco fosse molto diffuso a Roma e in genere nell’Europa occidentale, e più o meno tutti sapessero articolare qualche parola o qualche semplice frase in greco, questa era pur sempre una lingua straniera, e l’uso eccessivo di parole greche poteva disturbare e confondere la persona poco colta che faticava a capire. 



In effetti nel mondo latino la parola episcopus non doveva essere di facile comprensione, se Agostino nel commento al salmo 126 si sente in dovere di spiegarne il significato: “I vescovi sono stati posti in una posizione più elevata per sovrintendere e quasi custodire il popolo. Infatti la parola greca episcopus si traduce in latino ‘sovrintendente’ (superintentor), perché sovraintende, perché guarda dall’alto. E infatti come al vignaiolo viene assegnata una posizione più elevata per sorvegliare la vigna, così anche ai vescovi viene dato un luogo più elevato”.



In realtà il vocabolario latino già possedeva dei termini di cui si sarebbe potuto servire: antistes (il sovrintendente dei templi) o sacerdos per esempio. Ma si decise alla fine di evitare tali parole, perché i termini troppo compromessi col culto pagano venivano in genere respinti, per ovvie ragioni, dalla lingua ecclesiastica. Il tentativo di adattare antistes all’uso cristiano si trova in qualche testo, ma è significativo che è più facile trovare la parola in testi di pagani che parlano del cristianesimo più che in autori cristiani. La preoccupazione del purismo linguistico tocca solo marginalmente i cristiani, che spesso dichiarano quasi programmaticamente di non volere troppo conformarsi a molte astratte norme grammaticali predicate dai puristi: alcuni (come fa spesso Agostino) dichiarano apertamente la propria insofferenza e affermano di usare di proposito (soprattutto nella predicazione) una lingua meno elevata, perché il loro fine è innanzitutto quello di istruire il popolo proponendogli la parola di Dio.



L’etimologia di episcopus offerta da Agostino è corretta: la parola è formata da epi- che significa “sopra” e dalla radice di skopéo “guardare” (la stessa che troviamo in parole di derivazione greca come telescopio o microscopio o endoscopia). In sostanza vescovo ha la stessa formazione dell’italiano supervisore. Nel greco classico il termine può avere un uso molteplice: in Omero e nei testi più antichi è usato genericamente nel senso di “custode”, e nell’Iliade gli dèi sono detti “custodi (epískopoi) dei patti”. Poi assume un valore tecnico di “funzionario”, spesso di “funzionario che sovrintende a compiti amministrativi”. Il fatto che si tratti di una carica generica e non legata al culto degli dèi pagani ha favorito il reimpiego della parola nel lessico cristiano. Col valore di “funzionario” la parola si incontra anche nell’Antico Testamento, quando il salmista (Ps. 108 [109], 8), lamentando di essere stato oggetto di menzogna, augura al mentitore che “pochi siano i suoi giorni e il suo posto (episkopén nel testo greco, episcopatum nella versione latina di S. Gerolamo) lo occupi un altro”. 

La parola è in uso fin dai primordi della Chiesa. La lettera di Paolo ai Filippesi si apre con un indirizzo di saluto ai santi in Cristo, ai vescovi e ai diaconi: da questo si desume l’esistenza di una gerarchia in cui i vescovi si trovano in una posizione più ragguardevole dei diaconi (parola che a sua volta meriterebbe una riflessione). Naturalmente, in questi usi più antichi la parola va inserita in un contesto lessicale e organizzativo diverso da quello che si sarebbe stabilito nei secoli successivi: nella lettera a Timoteo Paolo chiama l’episcopato “un’opera nobile” e afferma che il vescovo deve essere “irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare”. Ma non ci soffermeremo qui sugli aspetti storici e giuridici, perché l’intento della nota è puramente linguistico.