Il crollo del sistema bipolare, contrassegnato dallo scontro ideologico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ha lasciato in eredità un mondo multipolare “dominato da tre blocchi in corso di formazione: Stati Uniti, Europa e Asia. Il rischio di scontri militari è minimo, ma la guerra economica imperversa”. Giuseppe Gagliano, presidente del Cestudec (Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis) parte da questo assunto per sviluppare il suo avvincente saggio Sfide Geoeconomiche. La Conquista dello spazio economico nel mondo contemporaneo (Fuoco Edizioni, Roma 2018). 



Il testo analizza con rara perizia un tema colpevolmente poco trattato in Italia: la guerra economica e le sue connessioni con la guerra dell’informazione. Sono queste le “armi” con cui gli Stati competono oggi nell’arena internazionale. Detta in altri termini, la conflittualità non è stata espunta dal pianeta, ma le guerre continuano a essere combattute con lo strumento dell’economia. L’autore supera, evidentemente, il paradigma del multilateralismo inteso come fase di distensione e accettazione di regole condivise, proprio di alcuni approcci teorici delle relazioni internazionali e, al contempo, quello quello delle teorie “neomarxiste” che contestano il criterio della sovranità statale a varie intensità erosa dalla crescente autonomizzazione degli attori economici. Lo Stato resta, senza se e senza ma, il protagonista delle relazioni internazionali, soprattutto di quelle di tipo economico. Nasce da qui la necessità di dotarsi degli strumenti necessari per affrontare la competizione economica internazionale, per l’edificazione di reale un sistema-paese. 



Giuseppe Gagliano fonda il suo impianto teorico sulle riflessioni dell’École de Guerre Économique (Ege) — nata in Francia nel 1997 — e dei suoi massimi esponenti, il generale Jean Pichot?Duclos e Christian Harbulot, primo vero stratega della guerra economica. Gli studi dell’Ege sfatano, o comunque ridimensionano, il mito della grandeur d’oltralpe e dell’invincibilità della strategia francese nel perseguire l’interesse nazionale, proprio di una narrazione mainstream, spesso tutta italiana. “La Francia che dall’Illuminismo all’epoca della decolonizzazione ha sempre ricoperto un ruolo di primo piano sulla scena internazionale”, si legge nel testo, “nel secolo scorso ha visto il suo rango di grande potenza progressivamente ridimensionato a quello di media potenza”. Mettendo nel cassetto il pensiero gollista si è auto-relegata al ruolo di vassallo dell’impero dominante, rifiutando di affrontare le sfide geo-economiche e limitando, dunque, tutte quelle strategie che devono essere impiegate per proteggere l’economia nazionale, sostenendo le imprese nella conquista di mercati e tecnologia. Il confronto con la potenza americana appare spesso impietoso. Gli Stati Uniti, consapevoli del fatto che gli avversari geoeconomici sono sovente alleati geopolitici hanno declinato la “tecnica di attacco” in termini di “forza di influenza”. 



Gli esempi riportati nel saggio sono inediti e di grande efficacia: dal controllo delle riserve petrolifere attraverso l’attivazione di diplomatici e agenzie di intelligence, per tessere una fitta rete di relazioni in Medio oriente, a strategie “immateriali” come l’imposizione delle proprie regole per il controllo di internet, definito “il mezzo e il fine di una nuova guerra”. E’ in questo spazio virtuale che “gli americani perfezionano i loro metodi di accerchiamento culturale, imponendo ai navigatori regole di consumo standardizzate e l’uso dell’inglese, che è diventata ormai la lingua universale”.Internet è altresì lo strumento con cui giovani dei paesi in aree di crisi, selezionati e formati negli Stati Uniti, possono restare in contatto con il mondo accademico ed economico americano. 

Nulla di tutto questo sarebbe possibile senza il coinvolgimento dell’intelligence nell’elaborazione di una strategia economica, ma soprattutto senza l’utilizzo dell’informazione come strumento di dominio. Quest’ultima, seppure non esaurisca le opzioni della guerra economica, è oggi uno strumento imprescindibile per la sua realizzazione. La guerra dell’informazione si è arricchita di nuovi mezzi e strategie fino a divenire una vera e propria guerra cognitiva (la cosiddetta information warfare), un paradigma strategico capace di rimodulare la “conoscenza” anche verso scopi conflittuali. Anche in questo caso gli studi dell’Ege offrono riflessioni importanti. Gli Stati Uniti hanno mostrato, già durante la guerra del Golfo, i conflitti nell’ex Jugoslavia e l’intervento in Somalia, di saper mobilitare l’opinione pubblica a seguito di un processo dis-informativo pianificato a livello di guerra psicologica. 

Tuttavia, è proprio durante le primavere arabe che la potenza americana ha utilizzato con maggior “tatticismo” l’arma dell’informazione per tentare di ridisegnare un nuovo ordine geopolitico in Nordafrica e Medio oriente, funzionale a salvaguardare i propri interessi strategici. Senza negare la natura spontanea delle rivolte del 2011, l’autore sottolinea come la destabilizzazione di regimi non più graditi sia stata favorita anche da sapienti manovre strategiche esterne che hanno visto nella guerra dell’informazione — e in particolare nell’utilizzo dei social network e di alcuni media locali — uno strumento di indubbia efficacia. 

Anche in questo caso gli esempi sono numerosi: dal finanziamento a imprese disposte a realizzare software anticensura alla formazione di cyber-attivisti. Se è vero che la guerra dell’informazione è stata fondamentale nella destabilizzazione dei “dinosauri dei vecchi regimi”, non è stata però in grado, per lo meno fin qui, di produrre una classe dirigente. Prova ne sia che le elezioni post-rivolte hanno visto, in Egitto e Tunisia, la vittoria di partiti islamisti da anni radicati nel territorio. Ma la storia è ancora lunga e le “armi dell’informazione” in continuo perfezionamento. 

Alla luce delle tante argomentazioni riportate nel saggio, il discorso potrebbe continuare e toccare altri ambiti di analisi, per i quali, vista la necessaria sinteticità di questa trattazione, si consiglia la consultazione del testo, la cui avvincente lettura porta a una personale conclusione. 

Il 6 marzo del 1947, quando il mondo era ancora sconvolto dalle ferite della guerra, Truman in un discorso pronunciato in Texas alla Baylor University disse: “siamo il gigante economico del mondo. Ci piaccia o meno, la struttura delle relazioni economiche future dipenderà da noi (….) possiamo condurre le Nazioni verso la pace economica o precipitarle verso la guerra economica”. Giuseppe Gagliano non solo ci mostra la strada che abbiamo scelto ma, facendoci conoscere gli studi dell’Ege, offre anche una soluzione: il declino economico di uno Stato potrà essere arrestato soltanto se si avrà la forza di adottare un deciso “patriottismo economico”. Una lezione che per Duclos e Harbulot vale per la Francia ma da cui noi italiani, in un momento così difficile per il nostro sistema-paese, dovremmo almeno prendere spunto.