Nella costruzione di un proprio sistema istituzionale (chiamiamolo pure Stato) il fascismo si trova di fronte un impianto complesso. La principale caratteristica consiste nel fatto che quello uscito dalla prima guerra mondiale non corrisponde più a quello dello Stato liberale. Forse questo non c’è proprio più.



Una valutazione di quanto è avvenuto è molto incerta sia nell’opinione pubblica sia tra gli studiosi. E dall’antifascismo nell’insieme non è venuto molto, anzi assai poco. 

Quando, a metà degli anni Trenta, il segretario del partito dei comunisti italiani Palmiro Togliatti, a Mosca, nelle sue lezioni (intitolate Corso sugli avversari) ai suoi compagni italiani spiega che il fascismo è un regime reazionario di massa, lo sconcerto è enorme. Nessuno poteva ammettere che uno Stato e una società modellati su principi totalitari e anzi reazionari (dell’esclusione, della discriminazione, della cancellazione delle principali forme del diritto e della libertà come quella dei partiti e dei sindacati ecc.) potessero essere definite munite di un consenso. Addirittura di massa, come precisa Togliatti.



L’antifascismo non si può dire che abbia dato un contributo degno di nota alla comprensione del regime che ha contribuito, in forme e misure diverse, a combattere. Soprattutto non ha capito che i mutamenti più significativi durante il conflitto (come la centralizzazione dei processi decisionali, la confusione tra potere legislativo e potere esecutivo, l’ipertrofico controllo statale su ogni aspetto della produzione e dell’economia, l’estrema segmentazione degli organi di gestione di origine parlamentare o meno ecc.) non erano il frutto dell’iniziativa dei fascisti. 



La realtà (difficile da sostenere) è che erano avvenuti proprio negli anni della guerra. E si erano mantenuti (anzi stabilizzati) in un diverso contesto e con altri personaggi (di estrazione liberale come Orlando, Giolitti, Facta) rispetto all’avvento di Mussolini. Pertanto il protagonista di questi mutamenti radicali non erano state le camicie nere e i loro intellettuali, ma le esigenze connesse alla prima guerra mondiale. 

Queste modificazioni dello Stato liberale furono imposte dall’emergenza. Solo che invece di essere congiunturali assunsero una presenza ed una forza strutturali. Non cessarono col venir meno dei bisogni imposti dalla guerra e malgrado la campagna ingaggiata contro le cosiddette “bardature di guerra” dai governi post-bellici.

Il ritorno ad una libera regolazione del mercato, e ad un rapporto meno patologico tra i poteri dello Stato, non ci fu. L’estrema volatilità dei governi (da Orlando a Facta) fu il segno che l’ingovernabilità e la crisi del regime parlamentare erano contestuali, se non connessi strettamente, al mancato ritiro dei mille interventi con cui lo Stato aveva avviluppato la società e lo Stato. Esso era diventato imprenditore e più “interventista” (cioè decisore) che garante dell’equilibrio di poteri, non solo in economia.

Il fascismo finì per ereditare questo straripante statalismo. Cercò, senza riuscirci molto (salvo che nel governo delle manifestazioni di massa), di plasmarlo a propria immagine e somiglianza (immagine che peraltro non era riuscito a creare e quindi non poteva farne una congrua applicazione).

Chi si rese conto delle strutturali trasformazioni prodotte dalla gestione della guerra sulle istituzioni parlamentari e in generale sugli Stati di impianto liberal-democratico, furono in Francia Leon Blum e in Italia un esponente del piccolo partito nazionalista, il giurista Alfredo Rocco.

Guido Melis, uno dei maggiori studiosi dell’amministrazione dello Stato, allievo di Sabino Cassese e docente universitario a Roma, ha il grande merito di averli opportunamente rivalutati nel volume appena pubblicato dal Mulino, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista.

Blum era stato membro del Consiglio di Stato e capo gabinetto del ministro Marcel Semblat. Il suo saggio La reforme gouvernementelle uscì in grande clandestinità a Parigi nel 1918 e fu ripubblicato durante il governo del Fronte popolare francese, nel 1936. Nessuno dei dirigenti dei partiti antifascisti italiani si accorse della sua importanza. Ma dalla lettura di esso si capisce benissimo che la ragion di Stato, le esigenze di guerra, a cominciare dagli armamenti, il rapporto del parlamento con l’esecutivo, ma anche le garanzie da dare alla popolazione (a cominciare da quella femminile), alle imprese, ai bambini e ai vecchi ecc. avevano introdotto mutamenti di fondo nel funzionamento dello Stato liberale. Era difficile sostenere che esso ci fosse ancora. Si può anzi dire che era nato il pre-fascismo. 

Qualcosa di simile, ma anche di diverso da quello che saranno le istituzioni italiane negli anni 1922-1945. Ad avviso di Melis lo Stato e la società italiana in quel ventennio non riuscirono a creare quel che le camicie nere, e lo stesso Mussolini, avevano sognato. Lo Stato forte, lo Stato fascista, l’incorporazione della società nello Stato, cioè la rivoluzione, furono un tentativo rimasto incompiuto.

Chi avrebbe dovuto mettersi da parte, cioè lasciarsi sostituire nella macchina dello Stato erano i direttori generali dei ministeri, i prefetti, i questori, la magistratura ordinaria e amministrativa, i dirigenti degli enti, le autorità scolastiche, i capi delle corporazioni, delle imprese pubbliche, del parastato ecc. Ebbene, Mussolini nel complesso evitò quella che oggi si chiamerebbe “rottamazione”.

Melis è un uomo di sinistra, ha fatto anche il parlamentare per i diessini. Ma è rimasto, prima di tutto, uno studioso. Pertanto non ha tesi da difendere, studiosi da demonizzare o peggio epurare (come è stato fatto per Renzo De Felice). Ha di fronte a sé domande da porsi, questioni da affrontare, archivi da rovistare. E sulla base di essi provare a formulare una risposta sugli interrogativi maggiori della nostra storia contemporanea.

Alla fine il suo giudizio, fondato su un’enorme documentazione, è preciso: il fascismo fu un regime che, consapevolmente o meno, non riuscì a frantumare, ad alterare il rapporto di continuità che lo legava ai suoi predecessori. In altri termini, le élites politiche, la burocrazia, i tecnici e i grandi commis d’etat, nel ventennio continuarono a governare. E si trattò prevalentemente di quanti erano stati scelti dai presidenti del Consiglio liberali: da Nitti a Giolitti. 

Il discorso ci riporta così agli studi e alle analisi di chi come Alfredo Rocco vi ha dedicato un esteso sforzo interpretativo, ma anche proposte operative. Rocco scrive più di un decennio prima di Blum. E proprio a lui si deve, insieme ad una riflessione sul passato (cioè sullo Stato post-unitario) un progetto non rimasto — almeno per quanto concerne il diritto penale — senza seguito, cioè l’elaborazione di uno Stato forte (si veda il saggio La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato fascista, La Voce, Roma 1927). Si è trattato probabilmente dell’apporto maggiore dato dal partito nazionalista (di cui Rocco fu esponente) alla costruzione del fascismo, come Stato e come regime.

Se così fosse, cioè se si fosse avuto nella crisi del primo dopoguerra un insieme di istituzioni, di leggi, di provvedimenti che non corrispondevano più allo Stato liberale ed erano inserite nell’iter di una transizione che avrebbe portato al fascismo, rimarrebbe aperta un’aporia. Per venirne a capo non si può far finta di niente, cioè guardare e passare. 

Se lo scheletro dello Stato forte è stato delineato dal pre-fascismo, cioè se questo modello e la relativa iniziale prassi istituzionale dalla teoria passarono in qualche misura alla prassi, non si può giustapporlo allo Stato (e al regime) della mediazione.

In che misura la mediazione di Mussolini si distaccava, ed era diversa, da quella dei predecessori liberali (Nitti, Giolitti ecc.)? In che misura — e dove — la mediazione della prima repubblica che seguirà è stata diversa? L’argomento dell’identità dello Stato fascista diventa una questione storiografica cruciale. Infatti Guido Melis, per la prima volta negli studi contemporaneistici, ricostruisce il funzionamento del regime dal punto di vista delle istituzioni statali e del personale dirigente che l’hanno governato per un ventennio.

Siamo su un terreno, per qualità dei risultati e per importanza, che va ben oltre quello di un maestro (molto contrastato anche se poco contestato: nel senso che quasi nessuno dei suoi molti critici si è rassegnato a textum contra textum ponere) come Renzo De Felice.

Sostenere che il fascismo fu una macchina imperfetta rimanda ad una domanda che concerne il riferimento: cioè fu imperfetta rispetto all’immagine che Mussolini volle (in che misura? e fino a quando?) dare di sé, o lo fu rispetto alla realtà, cioè allo Stato che aveva ereditato e si mise a gestire impedendo qualunque revoca che non fosse imposta da un “incidente” corposo e imprevedibile come la seconda guerra mondiale?

Al fondo c’è il discorso sul carattere di Mussolini come governante, come attore politico. Se, come Melis sembra fare con grande coraggio rispetto ai teoremi di una storiografia tanto spregiudicata quanto sentenziosa, si accoglie l’interpretazione (suggerita da De Felice e riproposta da Caravale), di Mussolini come un uomo di Stato incerto, sempre tentato dal compromesso e alla ricerca non occasionale della mediazione tra gli interessi, i partner di un conflitto e le ali di una possibile scelta, un esito mi pare inevitabile: cioè l’assunzione del fascismo come uno Stato-regime di continuità, a parte un surplus di ricorso alla repressione e all’inasprimento delle pene agli oppositori più irriducibili, molto più che di rottura, con i propri predecessori almeno da Giolitti in avanti.

Melis è storico troppo attento e colto per dimenticare che queste idola della continuità e della mediazione non sono né orpelli né pretesti. Sono, infatti, elementi intrinseci dell’identità italiana dopo l’unificazione.

La cosiddetta “conquista regia”, il trasformismo di Depretis, la tecnica di Giolitti di “vestire il gobbo” (cioè l’artificiosa integrazione tra le due Italie) e il grave deficit di nazionalizzazione degli italiani hanno foggiato i governi e in generale la politica proprio come Melis efficacemente li descrive: “ricerca perenne di compromessi, di vie intermedie; come tattica eterna del rinvio; come complessa strategia di inclusioni tra opposti” (p. 568).

Già il suo maestro, Sabino Cassese, era stato un critico di De Felice quando gli aveva rimproverato di non avere sufficientemente messo in luce la forte continuità del fascismo con le istituzioni dello Stato liberale. Ma se è così, se tale continuità c’è ed è provata, l’Italia fondata sul sangue dei milioni di caduti nelle trincee e nelle guerre campali e sulle ambizioni delle camicie nere non ce l’ha fatta a costruire un’Italia e degli italiani diversi da quelli che storicamente a lungo sono stati.