Forse si può essere un “classico” prima che si venga riconosciuti come tale; credo sia il caso di Yves Bonnefoy, poeta e scrittore francese, scomparso di recente. Era nato a Tours nel 1923, il padre ferroviere, la madre maestra elementare. Voglio immaginare che il fumo, l’odore del carbone e dell’olio di macchina appiccicato alle giacche del padre e i silenzi — Bonnefoy racconta di un padre sempre silenzioso e serio, preso dalla fatica del lavoro — abbiano influenzato l’infanzia del poeta, tanto che per lui la scrittura diviene una sorta di rivalsa per un mondo che ricorda con dispiacere e insieme con nostalgia.
Bonnefoy studia alla Sorbonne e poi con Bachelard, si appassiona al Surrealismo di Breton, ma poi lo lascia, perché per lui è troppo limitato. In un’intervista al Festival della letteratura a Mantova nel 2007 ha detto: “La virtù di André Breton è quella di aver capito che la poesia nasce proprio da lì, dall’inconscio. Però la psicanalisi è troppo concettuale e non è in grado di capire la profondità dell’inconscio, che è l’esperienza della nostra finitudine. Dunque il poeta stabilisce con lo psicanalista un rapporto di sorveglianza reciproca. Lo psicanalista deve verificare che noi non sostituiamo i sogni alla realtà, al rapporto con noi stessi, mentre invece il poeta ricorda allo psicanalista che la sua ricerca dell’inconscio scaturisce da un limite, la finitudine, e che per questo non è adatta a esprimere la verità più profonda della nostra vita. Credo che la poesia debba essere composta per dare vigore alla vita, per cambiarla”.
L’incapacità paterna di comunicare con le parole spinge Bonnefoy a dedicarsi alla poesia, soprattutto come riproposizione di quell’esperienza connaturata all’infanzia, la nativa vicinanza delle parole con le cose. Ha detto una volta che la poesia è associabile all’infanzia, perché dopo i sette-otto anni all’esperienza diretta, al rapporto diretto con le cose si sostituiscono i concetti, per cui tutto viene reso astratto. Viene meno quel rapporto immediato, intimo, che fa diventare le cose delle presenze piene. Compito, quindi, del poeta è tentare una scrittura che ridia vita a quella intimità perduta, compito titanico e spesso perdente, ma che inevitabilmente porta alla domanda su cosa significhi far poesia, tanto che spesso i testi di Bonnefoy sono proprio una costante riflessione sul suo farsi.
Questa posizione, che ricorda, sia pure in forme diverse, la poetica pascoliana de “il fanciullino“, si associa a un interesse per il mondo classico greco e latino. Negli anni Cinquanta compie diversi viaggi in Italia e in Grecia, che gli permettono di conoscere l’antica civiltà greca, l’arte e la poesia italiana; egli vede in molti poeti e scrittori antichi gli stessi problemi che si pone nella sua poesia. Le grandi opere — sostiene — servono a migliorare il rapporto con noi stessi, abbiamo bisogno di opere per approfondire il rapporto con noi stessi. Bonnefoy è anche conoscitore ed estimatore dell’arte italiana del Rinascimento, dalle geometrie di Piero della Francesca alle ombre del Tintoretto.
Un’altra sfida nella sua opera poetica è la traduzione. Si cimenta con Shakespeare, Yeats, Keats, Leopardi e Petrarca. Che cosa significa tradurre? Significa capire che l’arte ha un carattere “transitivo”, cioè il traduttore non solo deve comprendere il testo che ha davanti, ma deve essere votato alla sua riscrittura. E per riscrivere bisogna rivivere, da una lingua all’altra i concetti perdono la loro fissità, le parole devono rivivere; questa è una grande opportunità, “l’occasione di pensare a cosa sia realmente la poesia, di capirne le strade, di indicarne la necessità”.
Impossibile riassumere i temi dell’esperienza compiuta dal poeta. Ha scritto: “la poesia sgorga da profondità inconsce e non da fatti contingenti: è sempre un gesto del tutto imprevisto e imprevedibile”. In altre parole la poesia nasce “dall’irruzione dell’assoluto nella sfera dei sensi”, nel momento in cui le cose si rivelano nel loro intreccio di relazioni e prendono coscienza della loro esistenza. È l’incontro con un paesaggio, una pietra, un colore, uno sconosciuto: questo incontro trasforma l’enigma del mondo — il male di vivere di Montale? — in una consapevolezza, l’evidenza del mistero. Ecco, allora, il valore della poesia come chiave d’accesso all’assoluto, al senso ultimo delle cose, così come era stato per Leopardi, Baudelaire e i grandi del mondo latino. Ai concetti Bonnefoy contrappone la forma musicale della poesia, capace di superare, di trascendere i significati di cui pure essa è apportatrice, la poesia come tentativo di trasmettere e trattenere l’indicibile, anche con la consapevolezza di un suo probabile insuccesso. Leggiamo, come esempio, da “L’ora presente” (Mondadori, 2013):
Io ti offro questi versi, non perché il tuo nome
possa mai fiorire in questo suolo povero,
ma perché tentare di ricordarsi,
sono fiori recisi, il che ha senso.
Certi dicono, persi nel loro sogno, “un fiore”,
ma significa non sapere che le parole tagliano,
se credono di designarlo, in quel che nominano,
trasmutando ogni fiore in idea di fiore.
Tranciato il vero fiore diventa metafora,
questa linfa che cola, è il tempo
che finisce di liberarsi dal suo sogno.
Chi vuole avere, talvolta, la visita deve
amare in un mazzo che abbia solo un’ora,
la bellezza non è offerta che a tal prezzo.
Immagini potenti, e insieme colloquiali, generano incertezza, ma è impossibile desistere, evitare di ammirarle.
Bonnefoy muore a 93 anni a Parigi, poche settimane dopo avere pubblicato un saggio autobiografico che indaga sugli inizi della sua vocazione. Nell’Echarpe rouge evoca l’infanzia e la sua relazione con i genitori, con la madre maestra, ma soprattutto con il padre operaio, che sognava per il figlio un avvenire da capocantiere. Forse non aveva sbagliato!