Partiamo dai fatti così come sono stati dichiarati. Nel 2007 Facebook ha lanciato la sua piattaforma che permetteva alle app di autenticarsi tramite Facebook per condividere ancor più dati (calendario, mappe, rubrica, eccetera), con il classico tasto del “login with Facebook” che tutti conosciamo e dalla comodità straordinaria, anche se forse non tutti ci siamo mai chiesti perché l’app “Torcia” chiedesse accesso al mio calendario o alla rubrica.
Nel 2013 un ricercatore della Cambridge University ha creato un’app con l’obiettivo di profilare la personalità di chi partecipava mediante un quiz. 300mila persone l’hanno installata e hanno partecipato loggandosi con Facebook e permettendo l’accesso anche ai dati dei loro amici (all’epoca la policy di Facebook lo prevedeva). Si è passati, quindi, da 300mila a 50 milioni di persone “profilate”.
Nel 2014 la policy di Facebook è cambiata, e da allora non permette più l’accesso ai dati della rete di amici, a meno che questi non abbiano un’impostazione del profilo che lo consenta esplicitamente. Quindi, l’app incriminata nel 2014 non avrebbe avuto più dati di coloro che l’hanno installata. Questo dimostra che il problema dell’uso dei dati è “culturale”, forse addirittura “etico”, ancor prima che tecnologico. E’ un mondo nuovo per tutti, e dobbiamo capire tutti come conviverci.
Nel 2015 il ricercatore in questione ha condiviso i dati collezionati qualche anno prima con la società Cambridge Analytica, nonostante avesse sottoscritto un Non Disclosure Agreement (Nda) con Facebook, dichiarando di aver cancellato i dati in questione, cosa che — come abbiamo saputo dalle cronache dei giorni scorsi — non ha fatto. Sappiamo dai giornali che questi dati sono stati utilizzati per profilare quei milioni di elettori americani — o forse più, usando i 50 milioni come campione — esattamente come si fa con l’e-commerce (non vi è mai capitato di vedere sul vostro profilo Facebook un’offerta relativa a un prodotto Amazon che avete messo nella Lista dei desideri? Eppure sono due app diverse…).
Questi, in sintesi, sono i fatti. Non c’è, quindi, nessun “bug”, se non in una governance dei dati personali che era immatura (e ancora lo è!), e il tentativo di riformulare il concetto di “privacy” e di “cosa puoi usare dei miei dati e cosa no” nel mondo destrutturato, incontrollabile (!) e anarchico del web.
In uno scenario così complesso e mutevole, molti si sono scandalizzati per quanto accaduto, forse convinti che Facebook e tutti gli altri social siano delle Onlus o che abbiano uno scopo sociale più alto del mero commercio guidato dalla pubblicità. Lo scandalo, forse, è nello scoprire che l’acqua bagna: lo scandalo dell’acqua bagnata!
Molti, infatti, vedono Facebook come un prodotto, ma non accettano che la cosa sia vicendevole, ovvero che noi, in qualità di generatori di dati, siamo un prodotto a nostra volta. Siano questi dati utili a fini commerciali o a fini politici, rimangono per Facebook dei semplici dati da vendere per fare business. La sua mission dichiarata è “connettere il mondo” e prescinde dall’uso che poi questo mondo connesso fa della possibilità di essere connessi.
La verità di quel che si legge, così come l’appropriatezza dei contenuti, non è affare di Facebook. Purtroppo per chi crede alle fake news e non si accorge che il web è governato dalla “click-economy”, per cui un tuo click “curioso” vale qualche centesimo per chi lo ha postato (incredibile: Di Maio si convince e…) e tu clicchi! Nessuno forse si è mai chiesto perché la gallery fotografica del Corriere è fatta a “pagine”. Non certo per velocizzare la foto più rapidamente, risparmiando i vostri preziosi giga di traffico. Non è così: su più pagine ci va più pubblicità! “User engagement” si chiama, e si paga!
Purtroppo anche per tutti coloro che demandano l’amicizia e la capacità di informarsi sulla realtà dei fatti a un social network che, nell’uso migliore e più alto, può servire, tutt’al più, a rimanere in contatto con degli amici o conoscenti sparsi per il globo. Niente di più, ma davvero niente.
Aspettarsi di più, infatti, è irreale, perché va contro lo scopo dichiarato dell’oggetto e la natura del web che — come magistralmente sottolineava Jonah Lynch in un suo libro — taglia via tatto, olfatto e gusto: tre sensi, quindi, della realtà sono fuori dalla realtà di internet. Una realtà da cui ci aspettiamo tutto (gli adolescenti più di noi): che gestisca l’amicizia, gli interessi, il lavoro, e che si faccia carico anche dell’uso della mia libertà, quella di credere a una cosa e non a un’altra, quello di dire qualcosa di me o di non dirlo, quello di decidere chi può sapere qualcosa di me e chi no, nell’attesa di una “legge” che tuteli il nostro cervello.
Una legge ci vuole, sia chiaro (è in arrivo a maggio il Gdpr europeo, un primo tentativo), ma nell’attesa dovremmo forse preoccuparci di educarci all’uso dei social e di internet, di esercitare la prudenza (fake account, fake email, navigazione anonima, disattivare Gps del cellulare: ci vuole poco…). Dovremmo occuparci di coltivare amicizie vere, rapporti veri, di tornare a giudicare dell’attendibilità del testimone: che sappia quel che dice e che non ci voglia ingannare.
Insomma, non perdere di vista il reale e quel che è vero, ora che è divenuto cruciale, poiché viviamo nel mondo della “post-verità” (“post” non latinamente inteso).