Barbara Balzerani ha sostenuto che essere vittime sia ormai un mestiere. Lo ha detto riferendosi al sequestro di Aldo Moro, all’uccisione dei cinque uomini della scorta, nonché al suo assassinio. La “professione di vittima” riguarderebbe i parenti e i sopravvissuti della lunga e terribile stagione della lotta armata in Italia (del terrorismo politico, se preferite), che ne farebbero una posizione di rendita e di esclusivo possesso. Solo a loro sarebbe dato di poterne discutere. Agli altri, specialmente ai protagonisti dei fatti, non sarebbe concesso il diritto di parola.



È una sciocca, crudele e rancorosa affermazione. D’altra parte non mi sono mai aspettato un granché dal brigatismo, anche ex. Se ve ne fosse il bisogno, simili dichiarazioni sono anche un sintomo fra i tanti che gli “anni Settanta” — uno dei più lunghi, complessi e drammatici cicli di lotta politica del XX secolo, che si estende dalla seconda metà degli anni Sessanta fino agli albori degli anni Ottanta — sono stati ormai completamente rimossi dalla memoria collettiva del Paese. E come è noto, il trauma rimosso non è affatto superato, ma ritorna ad avvelenare la vita di chi lo ha subito. 



Nel caso specifico qualcuno si accontenta di fare di uno dei momenti più tragici della storia d’Italia oggetto di chiacchiera in un bar occupato, ricordo immaginifico da reduce vagamente nostalgico (il nuovo secolo è infarcito di infinite piccole narrazioni a misura di individuo). Altri, a mio avviso con altrettanto cinismo, ne fanno pessime ricostruzioni, reportage composti con il linguaggio delle fiction, biopic (etimologicamente osceni) che riducono ogni avvenimento a puro e semplice fatto di cronaca nera. Indistinto, generico, inspiegabile. Il tutto condensato, ridotto, piegato ai ritmi ossessivi e omologanti del messaggio massmediale, che è l’esatto opposto della memoria. Permane per la collettività (qualsiasi cosa ciò voglia ancora dire) un vuoto di significato, una impossibilità a fare i conti con la propria storia. Permane per le vittime (e anche un po’, se mi permettete, per i protagonisti che si sono assunti le proprie responsabilità penali, civili e politiche) il dolore irrisolto, incompreso, in/mediato, sostanzialmente dimenticato, socialmente inconsistente, forzatamente transeunte, condannato a riproporsi sempre insoluto nella infinita ripetizione delle ricorrenze. Peraltro vi sono ormai nel calendario laico più “Giorni della Memoria” di vergini e martiri in quello cattolico.



Tuttavia, qualche volta le scempiaggini ci possono aiutare a rilevare alcune trasformazioni in atto, a fare attenzione ai cambiamenti. A ricordarceli, almeno. È ormai manifesto come, in questa postmodernità trans-democratica in cui “uno vale uno” (ovverosia non vale un accidenti), in cui le vecchie identità sono tutte evaporate, la ricerca di un’appartenenza collettiva sia un fatto estremamente difficoltoso, se non improbabile. Prima, quando la modernità era ancora in auge, l’individuo poteva collocarsi politicamente, esercitare la propria libertà aderendo a insiemi intermedi che ne rappresentavano le esigenze, le aspettative, le aspirazioni, il senso della vita: i partiti, i sindacati, tutti gli istituti di rappresentanza. Vi erano poi luoghi che, in quanto tali, organizzavano socialmente i singoli: i luoghi di lavoro, di studio, di residenza. Oggi è di fatto impossibile costituirsi collettivamente se non a partire da rivendicazioni e bisogni puramente individuali o genericamente astratti, di solito conformati sotto la specie di diritti. Siamo nell’epoca delle class action, delle petizioni per ogni possibile e immaginabile causa, soprattutto dei social network. In altri termini siamo nel mondo dei semplici interessi personali — motivati, ma che si sommano alla pari con altri interessi personali, senza mai elevarsi a interesse generale — e del puro simulacro. A questo universo vengono inevitabilmente schiacciate loro malgrado le associazioni delle vittime, delle vittime di ogni possibile doloroso evento. 

Non è responsabilità delle vittime se non si sentono rappresentate da nessuno, se non vi è più nulla capace di supportarne le istanze, inglobandole e generalizzandole in un contesto comunitario. Se per esistere socialmente non possono far altro che reiterare la propria straordinaria e in quanto tale irrisolvibile condizione, rinnovando costantemente in un’apoteosi di dolore il dramma che le ha schiantate. Le associazioni delle vittime sono una tra le più macroscopiche e paradigmatiche evidenze del venir meno degli istituti intermedi. E di un conseguente “fai da te”, doloroso e votato alla più infelice solitudine.

Sia chiaro, le vecchie identità collettive non sono da rimpiangere. Le tragedie del secolo breve stanno lì a dimostralo. Anche tutte le nefandezze, le costrizioni, i legami assoggettanti (tribù, caste, identità religiose, strutture antropologiche) che sono sopravvissuti nei secoli come eredità omologanti e oggi stanno andando drammaticamente a pezzi (il “fondamentalismo” ha essenzialmente queste coordinate). Anzi, forse sta per aprirsi una finestra (sottilissima) di possibile positiva trasformazione: da individui egocentrici e narcisisti accorpati in mandrie di gregari (un ossimoro caratteristico della postmodernità, che taluni — orfani del Proletariato — si ostinano a chiamare “Moltitudine”, come se fosse una bazza) a persone a tutto tondo, finalmente responsabili del proprio destino. È una delle potenzialità insite negli attuali sviluppi del capitalismo, il peggior sistema economico ad eccezione di ogni altro fin qui sperimentato. 

Purtroppo, a complicare ulteriormente il quadro, va ricordato che gli italiani non hanno mai fatto i conti con i totalitarismi. Per ragioni storiche e geopolitiche (guerra fredda, appartenenza al blocco occidentale, presenza di un forte partito comunista), al termine della Seconda guerra mondiale si sono limitati a criminalizzare nella loro carta costituzionale il fascismo (un sistema dittatoriale, ma altro dal totalitarismo), assolvendo implicitamente il comunismo, vale a dire gli orrori del socialismo sovietico. Le conseguenze sono state tragiche (vedi gli “anni Settanta” e la mancanza di un autentico riformismo, per dirne solo due) e continuano a minare all’origine la tenuta del Paese. Ad ogni crisi le risposte sono scomposte e incapaci di trovare soluzioni condivise. Ogni mediazione è relegata alla categoria negativa dell’inciucio e tutto porta alla polarizzazione semplificatrice. In questo senso il paragone con la Germania è impietoso. Dovendo confrontarsi con il nazismo e con il comunismo, con il passato e con il presente della Ddr, i tedeschi — anche la sinistra, vedi il congresso Spd di Bad Godesberg che spedì Marx in soffitta — fecero sul serio i conti e i “compiti a casa”. Scelsero una “Terza via”, quella dell’economia sociale di mercato, della dottrina sociale della Chiesa. I padri fondatori della Rft erano cattolici e liberali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anche gli impietosi confronti. 

Con il Movimento della dissociazione politica dal terrorismo, negli anni Ottanta, sciogliemmo le organizzazioni armate e accettammo le regole della democrazia. Alcuni di noi, a dire il vero non molti, senza rimpianti né retropensieri ruppero con il marxismo e optarono per una concezione della democrazia rappresentativa di stampo liberale e per una economia di mercato formattata da regole che garantissero equità sociale. Aprimmo un dibattito che avremmo voluto cambiasse alcune delle coordinate appena ricordate. Purtroppo rimanemmo soli, mentre agli inizi degli anni Novanta le forze politiche con le quali ci eravamo maggiormente relazionati (Dc e Psi) venivano spazzate via da una ennesima crisi di immaturità. Gli effetti sono oggi sotto gli occhi di tutti. 

Un punto fondamentale della discussione che portò nel 1987 alla promulgazione della legge che consentì la decarcerazione dei detenuti per banda armata — e decretò la fine di ogni prospettiva di rivoluzione violenta e tendenzialmente totalitaria nel nostro Paese — fu la richiesta che ogni protagonista entrasse nel merito delle sue personali e specifiche responsabilità. Questo ci costrinse a fare i conti con i drammi veri, con le sofferenze concrete, e non con l’astratto costrutto della legge. Soprattutto portò alcuni di noi a scontrarsi con il concetto di tzedakàh (rettitudine, capacità di riequilibrare l’ordine del mondo), una categoria del pensiero e del cuore che dà spazio al tessuto relazionale dell’uomo con il Mistero, con l’Altro, e quindi con gli altri e con sé stesso. Una domanda (mai una risposta) che si incarna in atti salvifici, capaci di trasformare l’inferno in un luogo in cui l’umano rinasce. Che fa incontrare vittime e carnefici, carnefici e vittime, e li rapporta oltre il dolore, l’odio e l’indifferenza. È ciò che auguro ad ogni vittima, e anche a Barbara Balzerani.