25 aprile. Una festa non più compresa, subìta a cuor leggero perché è un giorno di ferie, si dorme e chi è cattolico non va nemmeno a messa. Alcuni, pochi, si raduneranno per manifestazioni locali. I soliti vecchietti dell’Anpi, bandiere, sindaci con fascia tricolore, qualche ragazzino in corteo “perché ci sono i giovani”, qualche discorso altisonante poi tutti a casa. Questo è lo squallido esito finale della gestione della Resistenza di cui si è impadronita la sinistra per settantant’anni.



Non è chi non veda che, della Resistenza e dei partigiani, non frega più niente a nessuno e, va detto per onestà, la colpa non è soltanto dell’Anpi o del Partito comunista italiano (Pci) e dei sempre più pallidi epigoni e mutazioni di quest’ultimo. A fronte di studi complessi e coraggiosi, fondamentali da un punto di vista storiografico ma non letti dal grande pubblico (si prenda ad esempio Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della resistenza di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991) sta il ben più ampio successo di pubblico delle opere di Gianpaolo Pansa che ha rievocato i crimini contro i fascisti commessi nel 1945. L’Anpi ha sempre tacciato lo storico di Casale Monferrato di denigrare la Resistenza mentre Pansa, uomo di sinistra, ha scritto semplicemente quanto è avvenuto e non è mai stato smentito. Il difetto di queste opere è, caso mai, un altro: essersi concentrato sui crimini e non aver raccontato quella che fu l’epopea resistenziale. Inoltre il successo continuo di queste opere sta a significare che c’è uno strato assai profondo di italiani che non ha mai condiviso il valore della Resistenza e, prima di condannare questi, c’è da chiedersi il perché di tale atteggiamento. Forse perché centinaia di migliaia di giovani aderirono alla Repubblica Sociale con piena coscienza e deliberato consenso? E la Repubblica è stata anche la loro casa comune? Forse no e quegli uomini e donne e i loro figli si sono sentiti esiliati in casa propria.



Se la Grande Guerra fu definita “la Quarta guerra d’indipendenza”, la Resistenza fu la quinta, la più complessa e sanguinosa. Ma della Resistenza e di quegli eroi, perché tali furono, non si parla più ed è davvero un sacrilegio: perché chi conosce quelle storie e quei volti se li rivedrà sempre davanti agli occhi, a chiederci cosa abbiamo fatto del loro sacrificio. E va detto, a merito dell’Anpi, che sul sito internet dell’associazione è presente una mole enorme di informazioni, molto ben strutturata per chiunque voglia approfondire il tema.

Da dove si può cominciare a far conoscere l’aspetto positivo e commovente della Resistenza? Per chi scrive tutto iniziò con la visione del film Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, utile per introdurre alla conoscenza dell’opera di Beppe Fenoglio, forse il più grande romanziere italiano del dopoguerra. Italo Calvino, in una memorabile presentazione del suo Il sentiero dei nidi di ragno fece, in realtà l’esaltazione di Una questione privata, opera pubblicata poco dopo la precoce morte di Fenoglio: “il romanzo che tutti avevamo sognato … c’è la Resistenza proprio come era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia”. E ancora di Italo Calvino, partigiano in Liguria egli stesso, è la poesia che più di tutte rievoca quell’epopea: “Oltre il ponte”, di cui si cita la strofa più nota: “Avevamo vent’anni e oltre il ponte/ oltre il ponte ch’è in mano nemica/ vedevam l’altra riva, la vita/ tutto il bene del mondo oltre il ponte./ Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent’anni la vita è oltre il ponte/ oltre il fuoco comincia l’amore”.



Letteratura? Retorica? In realtà Calvino ricalca perfettamente la spinta ideale di tanti uomini e ragazzi di quegli anni e la riprova è un episodio che riguarda l’inizio dell’attività partigiana dell’architetto Filippo Beltrami, caduto in combattimento a Megolo, in Val Toce, nel febbraio del 1944. A metà ottobre 1943 Beltrami aveva deciso di andare sulle montagne per combattere contro i tedeschi e incontrò l’amico avvocato Marco Macchioni. Salutandosi da lontano i due futuri partigiani cominciarono a recitare i famosi decasillabi della strofa finale di “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni: “Oh giornate del nostro riscatto!/ Oh dolente per sempre colui/ che da lunge, dal labbro d’altrui/ come un uomo straniero le udrà!/ Che a suoi figli narrandole un giorno/ dovrà dir sospirando “io non c’era”/ che la santa vittrice bandiera/ salutata quel dì non avrà”.

Era la tradizione risorgimentale di lotta contro lo straniero che ritornava prepotente alla superficie dopo una guerra scatenata da Mussolini contro la volontà della nazione in nome di un miope calcolo politico e dopo una serie di errori catastrofici, dalla guerra d’Etiopia al Patto d’Acciaio. Oggi può far comodo a una vulgata moderata ritenere che nella Resistenza ci fossero solo ladri, grassatori e assassini e che “gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore” (Ennio Flaiano). Ma il sottotenente del genio Ettore Rosso, che si fece esplodere con un carico di mine insieme all’avanguardia di una divisione panzer a Monterosi, alle quattro di notte del 9 settembre 1943, non lo fece per vincere una guerra perduta e non salì sul carro del vincitore. E con lui tantissimi altri militari italiani che, pur non volendo attaccare i tedeschi, alleati fino al giorno prima, furono moralmente costretti a farlo per resistere e non essere fatti prigionieri.

Si può cominciare da quel settembre a dire che la prima Resistenza fu dei militari e non certo dei politici. In un mese di combattimenti più di 20mila militari italiani furono uccisi dai tedeschi. Chi scrive ha esaminato tutte le motivazioni delle medaglie d’oro al valor militare concesse a caduti della Resistenza italiana: si tratta di 587 nomi di uomini e donne, volti e storie difficilmente dimenticabili. Ebbene, di questi, 79 riguardano militari italiani uccisi tra il settembre e l’ottobre 1943.

Da questo dato possiamo partire per fare un’importante  puntualizzazione: la Resistenza non fu costituita solo da coloro che combatterono dietro le linee nemiche nel territorio italiano occupato dai nazifascisti. Questa fu solo una delle componenti anche se fu la maggioritaria  e più importante. Pochi ricordano le altre tre:

1. le forze armate italiane sia dopo l’armistizio del 1943 sia nel periodo successivo, che va dal dicembre 1943 fino alla fine della guerra (67 medaglie d’oro al valor militare e 3mila caduti); 

2. i 600mila militari deportati in Germania, che si rifiutarono di entrare nell’esercito di Salò pur patendo fame e malattie, di cui morirono in 40mila: fu grazie a loro che la Germania non potè costituire altre divisioni da mettere in campo per tentare di cambiare il corso della guerra;

3. i militari italiani all’estero, in Grecia e Jugoslavia (27 Movm e 10mila caduti)

Quanto a coloro che fecero la guerra partigiana bisogna definire, sempre in estrema sintesi, le motivazioni, il numero e la composizione politica.

Come precisato in Il Paradiso devastato: storia militare della Campagna d’Italia (Ares 2012) la scelta fu tra il permettere che la Germania nazista depredasse il nostro paese di ogni risorsa disponibile per continuare la guerra o opporsi ad essa. Quanto alle motivazioni, è giusto far parlare Giuseppe Fenoglio in Il partigiano Johnny: “E nel momento in cui partì si sentì investito — nor death itself would have been divestiture — in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Quanto alla vita quotidiana del partigiano, arroccato su montagne prive di risorse, sarebbe bene ricordare che, specie d’inverno, fame, freddo e malattie rendevano tale vita maledettamente scomoda.

La guerra partigiana in Italia iniziò per l’iniziativa di singoli, come di scampati a un diluvio universale e non meraviglia che, nel novembre del 1943, i partigiani fossero solo 3.800 di cui 1.650 nel Piemonte legittimista e di forti tradizioni militari. Gli autonomi, apolitici, militari per cultura erano la maggioranza; iniziavano a organizzarsi i garibaldini, comunisti, fortemente indottrinati, combattivi opportune et inopportune e quelli di Giustizia e Libertà, mazziniani per formazione, rigorosi, spietati verso il nemico e verso loro stessi. I cattolici furono sempre minoritari ma saldamente inseriti nel territorio e capaci di un ottimo rapporto con la popolazione.

Nel luglio del 1944, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione dell’Italia centrale da parte delle forze alleate, Ferruccio Parri calcolava 52mila combattenti di cui 25mila nelle formazioni comuniste, 15mila giellisti, 10mila autonomi e 2mila socialisti. Si nota qui il formidabile sviluppo della componente comunista con uno sforzo organizzativo encomiabile anche se, da parte di molti, vi furono critiche per l’abitudine di gonfiare numericamente gli effettivi a scapito della qualità, specie in stagioni e territori dove le risorse alimentari erano insufficienti a nutrire una simile massa di armati. Il numero dei partigiani attivi diminuì drasticamente nell’inverno 1944-45 per poi risalire in primavera fino a toccare la cifra di 80mila combattenti ai primi di marzo 1945 e di 100mila in aprile. Metà di essi appartenevano a formazioni a guida comunista, ma va anche detto che nelle divisioni Garibaldi militavano moltissimi che comunisti non erano. La Resistenza non era un menu à la carte dove ci si poteva permettere di scegliere: si andava dove capitava o dove era più facile trovare aiuto.

Resta il fatto, invero beffardo e imbarazzante, che, in pochi giorni, il numero dei partigiani raddoppiò. Una stima governativa del 1947 quantifica in 223.639 il numero di combattenti e in 122.518 il numero di individui accreditati come patrioti per la loro collaborazione alla lotta partigiana. E’ logico che molti scendessero in campo al momento dell’insurrezione; è altrettanto vero che furono in tanti a fregiarsi di una qualifica di partigiano quanto mai immeritata.

Ciò detto resta il fatto che il movimento resistenziale in Italia fu il più sviluppato dell’Europa occidentale, superiore anche a quello francese per capacità bellica e importanza di operazioni. La fine della guerra in Italia fu considerevolmente abbreviata dall’insurrezione del 25 aprile e tale affermazione è corroborata da quanto narra lo storico inglese G.A. Shepperd secondo il quale “il consumo di carburante e di munizioni da parte delle forze alleate era stato altissimo e il 7 maggio si sarebbe verificata una penuria di munizioni per l’artiglieria da campo e anche la situazione dei carburanti era ormai critica. Non solo, ma il 25 aprile la situazione era peggiorata e non c’erano più riserve disponibili. L’insurrezione del nord Italia ebbe quindi un’importanza fondamentale nell’abbreviare i combattimenti e nel determinare la resa delle forze tedesche”. Un dato, incontrovertibile, che dovrebbe essere ricordato da quanti (e sono sempre di più) pensano che la Resistenza italiana sia stata ben poca cosa.

Il costo umano fu di 40mila caduti cui vanno aggiunti 10mila civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Questi sono dati oggettivi che, tra l’altro, prescindono dalla testimonianza umana di coloro che diedero la vita per la nostra libertà.

Questo il valore della Resistenza che non può essere sminuito dai molti punti oscuri che saranno oggetto dei prossimi articoli.

(1 – continua)