Per le democrazie occidentali quello che stiamo vivendo non è certo tra i periodi più favorevoli. L’onda lunga della crisi economica del 2008 continua a creare preoccupazione e disagio sociale con i Governi che appaiono disarmati di fronte all’effetto congiunto di numerosi fattori negativi: dalla stagnazione economica alla crescita delle disuguaglianze, dalla rivoluzione tecnologica alla riduzione degli spazi di manovra delle politiche finanziarie e monetarie.



Eppure, pur senza negare situazioni di difficoltà e di vera e propria povertà, la realtà è quella di una dimensione sociale di sostanziale benessere, con livelli di istruzione e di garanzie sanitarie elevati, con politiche di intervento assistenziale efficaci e largamente diffuse. Ma la politica non è stata capace di combattere il virus dell’antipolitica. Non solo in Italia, ma fenomeni come la decisione della maggioranza del popolo inglese di lasciare l’Unione europea o quella della maggioranza degli americani di eleggere come presidente Donald Trump non possono che essere lette come una voglia di cambiare in contrapposizione con i tradizionali rappresentanti del potere.



Il caso italiano è ancora più eclatante. Perché la vittoria dei partiti chiaramente (anche se velleitariamente) anti-sistema è avvenuta anche grazie a un clamoroso autogol delle forze di governo. Con i mezzi di comunicazione, con in primo piano la televisione, che hanno continuato e continuano a dipingere l’immagine di un Paese in difficoltà con la denuncia sociale che è diventata una costante di dibattiti e talk show e con il lamento di pochi che ha costantemente il sopravvento sulle ragioni degli altri, di quella che una volta si chiamava la maggioranza silenziosa.

C’è un enorme problema di percezione della realtà, c’è una miopia di fondo che impedisce di guardare e di giudicare in una prospettiva storica di medio termine. E così si accusa la globalizzazione come causa di tutti i mali, si chiede un sempre maggiore intervento dello Stato per affrontare le disuguaglianze, si esaltano il protezionismo e l’isolamento come soluzioni di fronte alle difficoltà dell’occupazione. E rischia di prevalere una visione manichea nel classico confronto tra Stato e mercato, come se da una parte ci fosse solo il collettivismo autoritario e dall’altra solo l’anarchia e la giungla.



Per diventare positivo, un confronto di questo tipo deve rientrare nella logica della dialettica, del genere letterario, dell’accentuazione dei toni evitando giudizi (e pregiudizi) sommari e immotivati. È questa la dimensione che fortunatamente emerge nel dialogo tra Tito Tettamanti e Adolfo Tuor T contro T, te lo do io il liberismo (Edizioni san Giorgio, Lugano, 2018). Avvocato e finanziere di successo il primo, giornalista e docente il secondo, entrambi svizzeri, autorevoli collaboratori del Corriere del Ticino, intrecciano in questo libro una documentata e non scontata analisi del sistema economico e politico attuale. Più pragmatico Tettamanti, più ideologico Tuor fanno comunque nascere un confronto ognuno ha le sue buone ragioni. Ragioni che è bene conoscere non perché la verità stia nel mezzo, ma perché è solo tenendo ben saldi i piedi nella realtà che si può guardare avanti con fiducia e fare un passo nella direzione giusta.