Ancora una volta il 25 aprile registra polemiche. Anche nell’associazione degli Istituti per la storia della Resistenza per la prima volta si assiste a una contrapposizione nelle candidature per il vertice che sarà nominato a giugno. Inoltre i sondaggi rilevano che un terzo degli italiani non sa che si celebra la Liberazione del 1945 (si va dall'”Unità d’Italia” alla “Festa del lavoro”) e soprattutto con le elezioni del 4 marzo vediamo prevalere sulla scena politica — in rappresentanza della maggioranza del Paese — soggetti che dal M5s alla Lega (e FdI) non si richiamano minimamente alla Resistenza e all’antifascismo. Anzi. Perché questa memoria impallidita e velenose divisioni? Eppure il dato storico per una celebrazione unitaria e fortemente sentita dagli italiani è indiscutibile.
E’ grazie alla Resistenza che l’Italia — paese che aveva dichiarato la guerra e l’aveva persa — non fu trattata come la Germania e cioè spartita e disarmata. Quando il capo del governo italiano, Alcide De Gasperi, si presentò al tribunale dei vincitori — la Conferenza di pace di Parigi, il 10 agosto 1946 — rivendicò di non essere trattato da imputato, ma da “democratico, antifascista, come rappresentante della nuova repubblica” ricordando, appunto, la “lunga cospirazione dei patrioti”, gli “scioperi politici” e le “forze armate italiane che hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania”.
Fu così che la perdita di territori fu contenuta sul confine nord-est alle rivendicazioni della Jugoslavia di Tito (sostenute all’epoca dall’Urss e dallo stesso Pci che era nel governo italiano) e Trieste, inizialmente spartita in zona A e B come Berlino, fu infine recuperata. Sul confine nordovest vi fu il “ritocco” di Mentone, ma non si ebbe nemmeno la perdita della Val d’Aosta grazie all’annullamento del referendum sull’adesione alla Francia che era maggioritaria
Accanto alla sostanziale integrità territoriale il secondo risultato della Resistenza fu che al contrario della Germania non subimmo il disarmo e proprio il comandante del Corpo dei volontari della Libertà (che riuniva le brigate partigiane), il generale Raffaele Cadorna, divenne il primo Capo di Stato maggiore del ricostituito esercito italiano.
Il terzo lascito della Resistenza è la comune matrice antifascista che fu alla base del “patto costituzionale” secondo cui una “classe politica” — da Alcide De Gasperi a Giorgio Amendola e Ugo La Malfa (che erano stati insieme nell’Aventino), da Giuseppe Saragat e Giovanni Malagodi a Pietro Nenni e Palmiro Togliatti — ha sempre sbarrato la strada, sulla destra e sulla sinistra, agli estremismi neofascisti o rivoluzionaristici.
Nel comune richiamo alla Resistenza e alla Costituzione antifascista la “guerra fredda” in Italia è stata attraversata in modo specifico con una forte tenuta democratica (nonostante terrorismi di destra e di sinistra e mentre altri paesi dell’Europa occidentale conoscevano svolte autoritarie) e la costruzione di uno Stato sociale con livelli di assistenza, previdenza e istruzione fra i più avanzati d’Europa.
Chi lamenta memoria divisa e crescente disimpegno dovrebbe chiedersi, a cominciare dall’Associazione nazionale dei partigiani (Anpi), se ciò non sia dovuto anche a propri errori come l’aver aperto le porte nel congresso del 2006 ai gruppi estremistici dei “centri sociali”. Bruciare le bandiere degli Stati Uniti non è certo in continuità con quanto Palmiro Togliatti prometteva nel dicembre 1945 al congresso del Pci: “Ricorderemo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa del sud, dell’Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la liberazione del suolo della nostra Patria. Il loro nome vivrà nel cuore del nostro popolo”.
Vedere nel corteo la Brigata Ebraica obbligata a sfilare con la scorta scredita agli occhi dell’opinione pubblica anche gli organizzatori, così come essersi opposti alla medaglia alla memoria dei partigiani della Brigata “Osoppo-Friuli” assassinati dai partigiani filo-titini non è una bella pagina di antifascismo.
Anche sul piano della ricerca storica vi sono stati e vi sono troppi tabù, che vanno dalle campagne dell’Insmli (Istituto nazionale di storia del movimento di liberazione italiano) contro Renzo De Felice alle omissioni sulla Resistenza dei militari. Proprio recentemente il giornalista e storico Luciano Garibaldi ha raccolto, con la collaborazione della figlia ricercatrice Simonetta, i “conti ancora aperti” nel libro Eventi e protagonisti del ventennio fascista (Archivio Storia, Mattioli, 2018).
La Resistenza non è stata un monologo dello stalinismo italiano. Illuminanti sono Le ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana dove al centro sono Dio, patria e famiglia. La Resistenza comunista fu talora “parallela”, come con la controversa scelta (in seno allo stesso Pci) del terrorismo Gap le cui principali azioni — l’attentato di via Rasella e l’uccisione di Giovanni Gentile — i Cln rifiutarono di avallare (anzi quello di Firenze condannò l'”assassinio” del filosofo).
Notizia incoraggiante è per questo 25 aprile la cerimonia di “riconciliazione” nei giorni scorsi con il vescovo di Reggio Emilia, Massimo Camisasca, tra i familiari di Rolando Rivi e quelli del capo dei suoi assassini, Giuseppe Corghi, che hanno chiesto il “perdono”. Rolando Rivi era un seminarista di 14 anni che, “reo” di andare in giro con l’abito talare, il 10 aprile 1945 venne rapito da partigiani comunisti e torturato per tre giorni. Poi gli fecero scavare una fossa dove lo gettarono dopo avergli sparato. Corghi era alla guida della Brigata Garibaldi denominata battaglione Frittelli della divisione Modena.
Ridimensionare il ruolo svolto da socialisti, cattolici e liberali nella Resistenza e lasciare usare l’antifascismo per legittimare estremisti e violenti non è una brillante operazione politica e storiografica.