Bob Dylan ha rischiato di perdere il proprio successo solo quando ha fatto ciò che gli altri si aspettavano da lui, come quando nella seconda metà degli anni Ottanta si era messo a fare dischi che riecheggiavano le produzioni elettroniche e pop del periodo. In dischi come “Empire Burlesque”, del 1985, piccole gemme torrenziali come la lunghissima “When the night comes falling from the sky” finivano inevitabilmente sprecate e ignorate. 



Molti trattavano Dylan alla stregua di una caricatura degli Inti Illimani, come se il suo genio, impostosi in una fase storica molto precisa e trasportato qua e là negli anni, lo costringesse a inseguire la sua ombra, a diventare la macchietta della contestazione. Bob Dylan si è salvato tutte le volte in cui ha rovesciato il tavolo e ha messo in contestazione se stesso. Lo ha fatto con dischi come “Bringing it all back home”, nei primi Sessanta, quando contaminava il lirismo sofferente del folk con un linguaggio acido, immaginativo, rude. Lo ha fatto nello stesso anno di grazia (il 1965) donando la chitarra elettrica alla rivoluzione, in brani immortali come “Like a Rolling Stone”. È scomparso quando il decennio d’oro stava finendo, e a metà degli anni Settanta in dischi come “Planet Waves” e “Blood on the Tracks” è ritornato esattamente al suo posto, nella sua poetica, con la sua vibrante umanità e col suo cronico cinismo. 



Si direbbe che la lotta tra questi due mondi mostruosi — lo scetticismo da racconto dei bassifondi e l’imperitura ricerca di una spiritualità per se stessi, prima ancora che per il genere umano — siano i veri zenit e nadir dell’enorme successo di Dylan. Il Nobel per la letteratura, conferitogli nel 2016, nulla aggiunge e nulla toglie, anche perché probabilmente i cattedratici di Stoccolma hanno omaggiato il funambolo linguacciuto di via della povertà, non il paroliere di sei decenni di musica. Fare sempre quello che il convenzionalismo non si aspetta da te. Per almeno sei anni Bob Dylan, nelle classifiche e negli introiti dei tour, era diventato come gli U2, come i Rolling Stones, come Roger Waters: “Modern Times” del 2006, “Together through life” del 2009 e “Tempest” del 2012 si erano issati nelle classifiche con la freschezza di Beyoncé. Dylan, come volto sul cartellone, non riesce a sopravvivere, a meno che quel volto sul cartellone non sia direttamente lui a disegnarselo. Da allora, ha inanellato quasi solo dischi di covers altrui, da Frank Sinatra fino alle parole dei folk-singers arrabbiati di quasi un secolo addietro. Incredibile come fare intelligentemente a pezzi il proprio mito sia il solo modo di crearsene uno più grande. 



Questo menestrello tenace e vittorioso, indolente e sempre preda di un disagio inafferrabile, è ora di nuovo in Italia, senza dischi nuovi da far sentire, senza lontanamente il battage pubblicitario di uno stadio tour. Userà quell’aria e quello stile molto dimessi con cui va in giro per il mondo sin dagli anni Ottanta, mescolando nuovo e vecchio, proprio e altrui, chitarra e piano, solo e banda, facendo storcere il naso a tutti quelli che si aspettano il predicatore del rock e ignorano che già negli anni Sessanta cacofonia, dispetto e dissonanza erano pane e acqua nei concerti di Bob Dylan. 

La giostra sta girando, è partita il 3 aprile da Roma e, dopo avere toccato Firenze e Mantova, tirerà il freno a Milano. Come il Nostro ricorda in “Long and Wasted Years”, “per un giorno sono stato l’uomo della tua vita” e anche se così non è più, almeno per adesso “il mio nemico è stramazzato nella polvere e ha perso tutta la sua lussuria”. Contro se stessi, contro lo spirito dei tempi.