Ma li avete mai sentiti Luigi Di Maio, Roberto Fico e Danilo Toninelli quando tessono le lodi dell’onestà? Non si riferiscono a quella scatola vuota e a doppio fondo che è lo statuto dei 5 Stelle. Quello in cui, per i gonzi, uno vale uno, ma in realtà Roberto Casaleggio e Beppe Grillo possono nominare e far decadere dalle cariche tutti gli eletti della sacra famiglia. I 5 Stelle vorrebbero imporre ad un popolo cinico e scostumato come il nostro, compresi i loro parlamentari, la dittatura dell’etica, il dominio assoluto del moralismo in versione sorniona, cioè lautamente casereccia. Mi risulta che il presidente Mattarella se n’è detto conturbato. Ma non può rivolgersi a Di Maio e a Toninelli e dire loro che queste sentenze accalappia-voti vanno bene per i comizi e vincere un’elezione, ma non per fare il governo. Ha scelto così di segnalare, alle delegazioni dei partiti che in questi giorni sta consultando, dei libri, dei testi di buona cultura.



Ne ha indicato due. Il primo si intitola Pensatori e culture politiche del Novecento italiano e dintorni, ed è pubblicato dalle parti in cui è maturata Maria Elena Boschi, in quel di Arezzo presso le solide Edizioni Helicon. L’autore è un docente universitario di tutto rispetto, toscano, esperto di Antonio Labriola, scrive per Einaudi. Si chiama Franco Sbarberi, vive a Torino, dove ha completato la sua maturità di studioso con Norberto Bobbio.



Il secondo volume è di mano di un piemontese, ingegnere elettronico del Politecnico di Torino, grande imprenditore, economista con una verve da polemista signorile e insieme implacabile. Si chiama Franco Debenedetti, e si intitola Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (edito a Venezia da Marsilio).

Tra i grandi personaggi da Sbarberi studiati con finezza ed acume, senza mai uno sgarbo o una caduta di tono (Condorcet, Gramsci, Calamandrei, Pavone e soprattutto Norberto Bobbio) ce n’è uno che Mattarella è stato tentato più volte di suggerire a Di Maio, cioè Benedetto Croce.

Già nel 1930, scrivendo per Laterza il volume Etica e politica, si era dovuto misurare con il populismo. Diventerà l’ideologia della liberazione sessantottina (Marx, Mao, Che Guevara e lo stesso maggio francese). E sarà in Italia portato in auge dai nostri grillini che hanno instaurato “la dittatura dell’etica”.



“Un’altra manifestazione della volgare intelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta, che si fa dell’onestà nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forme nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta d’areopago composto di onest’uomini ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”.

I temi oggetto di riflessione nella raccolta di saggi di Franco Sbarberi sono quelli del liberalismo, della democrazia parlamentare, del fascismo, del comunismo, della Resistenza, del ’68. In generale egli si confronta con le culture politiche della destra e della sinistra nell’Italia del Novecento. In lui è mille anni luce lontana l’idea di creare contrapposizioni artificiose o pontificali.

Gli argomenti più ardui sono trattati con un tratto civilissimo, quello del dibattito delle idee, quindi dell’irrinunciabile rispetto per il proprio avversario.

Pertanto non si capisce quanto succede nell’arena politica nostrana. I partiti sono piccole fortezze che navigano blindate, facendo sfoggio dell’ostilità reciproca. Di Maio e lo stuolo di Liberi e Uguali (a trazione Bersani) non intendono parlare col capo di Forza Italia, cioè con Berlusconi, al quale gli elettori hanno dato 4-5 milioni di voti. La Lega di Salvini ha riempito di anatemi M5s e il Partito democratico. Quest’ultimo si illude di avere perso le elezioni per titubanze e reconditi inciuci del suo ex segretario Matteo Renzi con Berlusconi.

Gli organi dirigenti dei partiti non sentono il dovere di discutere pubblicamente e cercare di capire dove e perché e quanto hanno perso. La democrazia interna non è sentita come un dovere, ma piuttosto come un surplus o un optional.

Suggerendo le riflessioni di Franco Sbarberi, il presidente Mattarella ha inteso recuperare l’importanza dei problemi ideali, delle culture politiche. Non sono solo differenziali per capire cosa vogliono gli elettori, ma anche per misurare la civiltà, la passione per il rispetto delle differenze tra i cittadini. Perciò Di Maio, Bersani, Berlusconi, Renzi, la Meloni dovrebbero leggerlo, e imparare. Non solo l’arte, ma l’estetica (la stessa etichetta) della politica.

Il libro di Franco Debenedetti presuppone questa dimensione culturale, ma invita a guardare in una lunga prospettiva storica un grande fallimento, che egli bolla come “l’insana idea della politica industriale”. Nel corso della campagna elettorale, per intervenire sui maggiori punti di crisi, si è spesso suonata (da sinistra a destra) la necessità di ricorrere alla grancassa dell’intervento dello Stato. E’ una musica che dura dal 1930. Si è presentata con fogge lessicali diverse, cioè protezionismo, autarchia, keynesismo, programmazione ecc. Il nocciolo duro, cioè la sua identità, è stata sempre la stessa: la perorazione dell’intervento dello Stato per assicurare il miglior governo dell’economia. Nasce così la cosiddetta politica industriale che ha sempre significato sostituzione al mercato e scarico delle perdite e degli insuccessi sui risparmiatori e in generale sui cittadini.

Debenedetti non è avvinto, e capitola, di fronte alla sua condizione di esponente e manager di grandi imprese private (Olivetti, Gilardini, Fiat ecc.). E’ studioso (ed è stato anche uomo politico) troppo serio per godere della débâcle delle politiche statali di intervento. Infatti, non ha scrupoli a denunciare che il settore privato dell’economia è stato sempre più coinvolto (in termini di influenza e di condizionamento) nelle vicende disastrose  del settore pubblico. Parla di “due metà del cielo”. Purtroppo destinate a non incontrarsi, a fare squadra. Come scrive, “i ponti tra le due metà sono arcobaleni nel cielo, svaniscono presto”.

Questo libro parte dalla formazione dell’Iri e arriva fino ad oggi, diciamo pure  dalla Grande Depressione degli anni Trenta alla Grande Recessione di questo decennio. E schiera vicende diverse (dagli altiforni fino all’attuale banda larga) e personaggi inassimilabili (da Giovanni Giolitti ad Angela Merkel). C’è un svolta, che ha una data, il 1992. Con i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi si è cominciato (Debenedetti è stato in Senato 12 anni) a smontare quanto era stato costruito dalla politica industriale nei 40-80 anni  precedenti.

Forse Mattarella, consigliando questo libro bello e utile, vuole indurre i futuri ministri e governanti a fare prevalere il lento movimento impresso alle “idee  per il libero mercato” e per la concorrenza. Il manifesto che si ricava da queste pagine è la speranza che “l’Italia non sia più un paese in cui lo Stato gestisce direttamente attività economiche e l’industria privata chiede aiuti e difende rendite, ma un paese che investe e inventa… un paese di persone libere e non di sudditi”.

La politica industriale è stata nel complesso poco efficiente: Ma “risulta dannosa per il tessuto economico e sociale del paese che la persegue: ragioni che riguardano in particolare la scelta degli investimenti e la governance delle imprese di proprietà dello Stato”.

Senza questa regia e questa cultura di che cosa discuteranno mercoledì prossimo i partiti per definire le convergenze programmatiche alle quali il capo dello Stato li ha sollecitati?