La Resistenza nacque per cacciare lo straniero e divenne guerra civile, come illustrato dal già citato saggio del Pavone dove venivano delineate tre guerre distinte tra loro: 1) lotta di liberazione contro l’occupante tedesco, 2) guerra civile contro il fascismo collaborazionista, 3) guerra rivoluzionaria.

Le prime due furono comuni a tutte le componenti della Resistenza, la terza alla sola componente comunista che la applicò non solo ai fascisti, non solo ai neutrali, ma anche a coloro che combattevano contro i nazifascisti e non erano delle loro stesse idee.



L’equivoco più colossale della vulgata resistenziale sta proprio in una presunta unità che non ci fu mai se non per i suddetti punti 1 e 2. Chi spezzò questa unità fu il Partito comunista, che cercò di monopolizzare il movimento resistenziale senza fermarsi di fronte a nessun tabù, come l’assassinio deliberato del proprio alleato.



La guerra partigiana in Italia ebbe caratteri di ferocia disumana fondamentalmente per due influssi: uno interno all’Italia stessa e uno esterno. Quello endogeno fu la brutalità di comportamenti già presenti nel nostro Paese in occasione di rivolte contadine o di repressioni. Ma c’è un fattore esogeno ed è l’importazione, in Italia, della guerra totale, senza restrizioni né tabù, quale fu praticata nella guerra civile spagnola (1936-1939). I comunisti, che ne avevano avuto diretta esperienza, inserirono nell’Italia del 1943 una spietatezza logica e mirata a vincere la guerra in ogni modo, senza curarsi delle sofferenze della popolazione e delle rappresaglie e con una particolare attenzione alla soppressione dei propri avversari politici, specie se alleati. Di contro, l’altra metà della Resistenza (autonomi, Giustizia e Libertà, cattolici) fu sempre attenta a non peggiorare la situazione e a non inasprire gli odi, pur combattendo con grande valore.



Se potessimo dividere per categorie le vittime della brutalità partigiana potremmo partire da:

1) i fascisti combattenti. Vale la pena ricordare che la guerra partigiana era di per sé spietata. Prigionieri non se ne facevano né dall’una né dall’altra parte se non per scambiarli con altri prigionieri. E quanto è vero il patema d’animo del partigiano Milton in Una questione privata di Fenoglio quando scopre che, anche presso i partigiani autonomi, i fascisti venivano tutti “scorciati”. 

2) i civili neutrali e non collaborativi. In genere i comunisti si prendevano con le cattive ciò che gli altri partigiani cercano di ottenere con le buone.

3) i fascisti dopo il 25 aprile. Anche qui bisogna rendersi conto che una guerra non è un incontro di boxe, dove al suono della campanella si smette di tirar cartoni, pena la squalifica. In un contesto così spietato la vendetta non è scusabile ma comprensibile. Eppure, per quanto si legga, furono quasi sempre i comunisti a fare massacri dopo la fine della guerra.

4) Ma c’è una quarta categoria di vittime della Resistenza che è al centro del nostro interesse: i partigiani uccisi da altri partigiani.

Il caso più conosciuto è quello delle malghe di Porzus, dove un distaccamento dei Gruppi di Azione Partigiana, a guida comunista, passò per le armi un intero comando brigata delle formazioni cattolica “Osoppo”. Movente: cedere il Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia titina. Nell’eccidio morirono, uccisi “da mano fraterna nemica” Francesco De Gregori, zio omonimo del cantautore e Guidalberto Pasolini, fratello minore di Pier Paolo. Un strage sottaciuta per decenni che ebbe risonanza mediatica con il film “Porzus” di Enzo Martinelli (1997) ma con reazioni memorabili come quella del presidente dell’Anpi Federico Vincenti il quale chiese ufficialmente che il film non venisse proiettato nelle scuole italiane. Solo dopo vent’anni di polemiche è stata possibile una memoria condivisa.

Un caso isolato? Purtroppo no. Sembra che, da parte comunista, ci fosse una certa abitudine a reprimere il dissenso col “fuoco amico”. Cesare Valobra, comandante di un distaccamento della brigata “Lanciotto” che prese parte alla battaglia di Firenze mi raccontava che, essendo ebreo da parte di padre, era fuggito coi suoi fratelli in montagna trovando accoglienza nelle brigate “Garibaldi”. Non essendo comunista polemizzava apertamente coi capi fino a che un compagno gli fece presente che, nel combattimento successivo, avrebbe dovuto guardarsi dalle pallottole che provenivano da dietro. Più di recente mi è stata narrata la storia di un partigiano cattolico nelle montagne sopra Genova che fu inviato nel capoluogo a bordo di una Kubelwagen tedesca preda di guerra e fu vittima di un’imboscata: un errore, per carità. Ma quanti furono questi “errori”?

Giampaolo Pansa ha raccontato la storia, senza essere smentito, di Giovanni Rossi “Bracciante”, combattivo ma troppo autonomo rispetto alle direttive del Partito. Il 28 febbraio due partigiani comunisti uccisero Rossi nel sonno.

Troppo autonomo e indipendente era anche Dante Castellucci “Facio”, amico e compagno dei fratelli Cervi, giustiziato dopo un processo che fu ritenuto una farsa dalla fidanzata e dagli amici. Sempre in Emilia, ad Argelato, desta ancora orrore la sorte dei sette fratelli Govoni, massacrati dopo lunghe ore di sevizie dai partigiani della brigata garibaldina “Paolo”. In tutto furono quarantaquattro le vittime di questa carneficina e tra esse Giacomo Malaguti che aveva combattuto a  Cassino nel Corpo Italiano di Liberazione. I responsabili dell’eccidio furono condannati all’ergastolo ma riuscirono a fuggire in Cecoslovacchia come avvenne per altri assassini.

Altro caso eclatante fu quello della missione “Strasserra”. Un agente dell’Office of Strategic Service (l’americano Oss), il tenente Emanuele Strasserra, insieme ad altri agenti e partigiani, giunsero nel Biellese per costituire una formazione partigiana non comunista che facesse da contrappeso allo strapotere dei garibaldini nella zona. Una formazione di garibaldini agli ordini di Francesco Moranino “Gemisto” tese loro un’imboscata e li sterminò, dopo di che i garibaldini eliminarono anche le mogli di due partigiani uccisi perché stavano indagando in modo troppo approfondito. Moranino venne condannato all’ergastolo nel 1957 ma la pena venne commutata in trent’anni di carcere che “Gemisto” non fece mai perché era in Cecoslovacchia. Nel 1964 il presidente della Repubblica Saragat gli concesse la grazia e “Gemisto” potè tornare in Italia venendo eletto senatore nel 1964.

Se per questi e per altri delitti la giustizia ha fatto il suo corso accertando i fatti accaduti, per altre morti di comandanti partigiani non si va al di là del forte sospetto che la versione ufficiale non sia quella vera.

Savino Fornasari ed Emilio Canzi furono due notevoli comandanti partigiani anarchici nella zona del Piacentino. Entrambi, subito dopo la fine della guerra, morirono in incidenti stradali sospetti.

Ugualmente sospetta è la morte di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli, prestigiosi esponenti socialisti dell’ala riformista, uccisi il 21 aprile 1945 da un gruppo di fascisti nella Bologna appena liberata dagli Alleati. Tale, almeno, la versione ufficiale, perché quella mattina i tedeschi se n’erano andati durante la notte e i fascisti erano abbastanza accorti per cercare di salvare la pelle e non continuare a fare rastrellamenti.

Sempre in Emilia furono assassinati (sicuramente non da fascisti) diversi rappresentanti delle “Fiamme Verdi” cattoliche. Per motivi di spazio vengono citati solo i nomi: Anselmo Menozzi (Paolo), Pietro Cipriani (Aldo), Mario Simonazzi (comandante Azor). Infine Giorgio Morelli “il Solitario”, giornalista e partigiano, venne ucciso per aver cercato di scoprire la verità su quelle morti.

Un’altra morte misteriosa fu quella di Manrico Ducceschi detto “Pippo”, uno dei capi partigiani più efficienti e combattivi dell’Appennino toscano. Ducceschi costituì una banda partigiana che, dopo numerosi successi, venne inquadrata nella V armata statunitense e contribuì ad arrestare l’offensiva invernale italo-tedesca in Garfagnana. Ducceschi, collegato al Partito d’Azione, era sempre stato indipendente dai comunisti e legato agli Alleati tanto da venir contatto dagli americani in funzione anticomunista. Il 24 agosto si recò a Roma e, al suo ritorno a Pistoia, preannunciò che avrebbe denunciato l’operato di alcuni gruppi partigiani. Due giorni dopo venne trovato impiccato in casa propria, appeso alla cintura dei propri pantaloni. L’autopsia sarà compatibile con l’evento ma alcuni elementi gettarono subito alcuni sospetti, come la mancata acquisizione del suo archivio agli atti dell’Autorità giudiziaria. Verranno condotte nuove inchieste negli anni Settanta e Ottanta ma senza esiti concreti se non il coinvolgimento di Licio Gelli.

Fondamentale, per tre casi che verranno descritti di seguito, l’indagine di Luciano Garibaldi I giusti del 25 aprile: chi uccise i partigiani eroi? (Ares 2018).

Il capitano Ugo Ricci comandava il distaccamento “Sozzi” della 52ma brigata Garibaldi “Luigi Clerici” in val d’Intelvi. Combattente in Africa settentrionale, dopo l’8 settembre costituì una formazione partigiana monarchica e cattolica. Audace e cavalleresco, preferiva disarmare che uccidere e questo non era gradito dal comando garibaldino. Il 28 settembre 1944 fu convocato per una riunione dove venne incaricato di catturare il ministro della Repubblica sociale Guido Buffarini Guidi che si trovava a Lenno, sulle rive del lago di Como. Il tentativo, eseguito a mezzanotte del 3 ottobre, fallì e Ricci rimase ucciso con due compagni: Buffarini Guidi non era nemmeno in zona. Nello scontro, che avvenne nel bar accanto all’hotel Regina di Lenno, morirono anche tre fascisti che vi si trovavano, presi completamente di sorpresa. Ricci, che era entrato nel bar, non aveva cercato lo scontro a fuoco, non era quello il suo obbiettivo. Furono altri partigiani dietro di lui a sparare e Ricci fu udito gridare al tradimento prima di cadere ucciso. Per decenni, inutilmente il padre e la fidanzata cercheranno di far riesaminare il caso che, tuttavia, è stato oggetto di studi approfonditi.

Il secondo caso è quello del tenente colonnello dei carabinieri Edoardo Alessi, eroe di guerra in Africa settentrionale al comando di un battaglione di paracadutisti carabinieri e poi partigiano in Valtellina. Anche in questo caso, la disciplina della sua formazione, la fede cattolica, l’idea monarchica differenziavano pericolosamente Alessi dalle tendenze del comando comunista di zona. Va ricordato che Alessi aveva dichiarato, da subito, che non ci sarebbe state esecuzioni di fascisti se non dopo un regolare processo. Dopo la sua morte ci furono più di cento omicidi nella zona.

Il 26 aprile 1945, quando ormai la Liberazione era vicina, cadde in un agguato insieme a un suo compagno a Gualzi di S. Anna, frazione di Chiesa Valmalenco. Secondo la versione ufficiale Alessi e Cometti, il suo compagno, furono uccisi da un gruppo di fascisti che stavano eseguendo un rastrellamento. Da subito corsero voci sull’inattendibilità di tale versione che furono confermate dall’indagine effettuata da Teresio Gola, ufficiale di collegamento del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e amico di Alessi. Subito dopo la Liberazione, Gola interrogò un tenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Mario Giordani, che rese un’interessante dichiarazione. Nella notte del 25 aprile, Giordani ricevette una telefonata che denunciava la presenza di partigiani in frazione Sant’Anna. Accorsi sul luogo, i militi trovarono i corpi di Alessi e Cometti con ferite da arma da fuoco e da taglio.

Vi fu un processo nel corso del quale venne condannato a dieci anni un sergente della Gnr, Mario Vignale, sulla base di testimonianze ma senza riscontri oggettivi. La sentenza fu impugnata dal Vignale davanti alla Cassazione che ordinò, il 30 giugno 1947, il rinvio del processo alla Corte di Assise di Bergamo. “Tuttavia — precisa Luciano Garibaldi — sia presso il tribunale di Bergamo, sia presso l’Archivio di Stato della città non esiste traccia di quel procedimento” (op. cit. p. 93). Successive indagini compiute privatamente hanno confermato i sospetti relativi a un tradimento di alcuni partigiani che avrebbero eliminato Alessi. La “mano fraterna nemica” colpiva ancora e non aveva lasciato tracce apprezzabili.

Il terzo caso, il più studiato e misterioso è quello del leggendario comandante Alfo Gastaldi “Bisagno” morto in un incidente stradale il 21 aprile 1945 e che sarà l’argomento del prossimo articolo.

(3 – continua. Leggi qui la seconda puntata)