La stanza si riavvolgeva fino alla sua formazione,/ l’istante da cui nacque. C’era, allora, un giardino/ e noi aprivamo gli occhi per la prima volta./ Ci schiacciava l’azzurro e chiedeva di noi.
[Prima dell’ingresso]

Il mondo riavvolto, il tempo, risalito al contrario, l’attimo attraversato in controcorrente, perché possiamo giungere dalla foce all’origine, all’anno zero di tutto: a questa tensione spalancano le liriche di Luca Manes. Il loro movimento, all’inverso di quello dei cronometri e dei giradischi, non si sdipana dall’adesso al futuro, ma ritorna indietro, verso il limite sfuggente che è “prima dell’ingresso”, il momento inafferrabile della “formazione della pellicola” — come suggerisce il titolo dell’ultima poesia. 



In questo slancio, l’intera storia e la geografia di un mondo, le determinazioni e gli accidenti, sono come travolti finché si dischiude il tempo e lo spazio della pura possibilità. Ne è una rappresentazione il Campetto di calcio con cui si apre l’intera raccolta: un “recintato di periferia” contemplato alla fine della partita. “Nella sosta del compito” quel campo diventa la soglia misteriosa in cui ogni cosa può accadere, come un’isola nell’oceano della città dalla quale i protagonisti scrutano la rotta. Il non-luogo improvvisamente vibra nell’attesa di ogni inizio possibile: non solo il via vai dei tram, non il prossimo fischio dell’arbitro a dare l’avvio alla partita. Le cose tradiscono un’altra tensione, il presagio di un “incessante andare oltre la vita”. E il campetto nel buio assume la consistenza impalpabile ed elettrica dell’istante di silenzio che anticipa una rivelazione. I protagonisti da questa dimensione originale si sporgono al primo richiamo: “noi che dal fondale/ soltanto un fischio attendevamo nella notte”. 



Ma forse è inesatto descrivere il movimento a cui introducono le poesie di Manes come una risalita in senso cronologico. Lo stesso riavvolgimento della stanza, che dissolve lo spazio nell’abisso del cielo in Prima dell’ingresso sfonda il momento presente perché ci trascina oltre l’istante — quel prima ha un valore ontologico, non archeologico. Al poeta interessa svelare la dimensione da cui sgorgano le cose, quell’origine che tante sue parole tentano di evocare: è “il crinale”, è “l’altra sponda”, “la soglia”, “il pertugio nel cielo”… In qualsiasi modo la si identifichi, questa retrogradazione delle cose al “fondale” da cui scaturiscono caratterizza in modo definitivo la poesia di Manes. Ritornano di continuo, ad esempio, espressioni in cui una presenza è offerta in negativo, attraverso la sua sottrazione. È il caso di: “nell’assenza/ di bandiere”, “osservando la mancanza di gioco” [Campetto di periferia], “nella negazione del gesto” [L’allarme], “nella dimenticanza del compito” [Nel letto] etc. Il gioco nel campo, il gesto, il compito, sono sottratti — potrei dire: presentati come assenze. Appaiono cioè come eventi superati dal processo di scavo-risalita, riassorbiti nel silenzio che li precedeva, un istante prima che fossero. La poesia si sviluppa su questo piano, per cui ogni cosa è colta nella sua origine insondabile, nella sua possibilità — direbbe forse Aristotele — piuttosto che nella sua storicità, e dunque esiste e non esiste al tempo stesso. È assente, ma in quanto atteso ogni gesto, ogni incontro, ogni parola vive già una sua inspiegabile presenza, preannunciata dagli innumerevoli allarmi e richiami che affollano i versi di Manes. La mancanza che traspare dalle poesie somiglia piuttosto alla sospensione con la quale si aspetta un arrivo che alla definitività con cui si pronuncia un addio. Le cose non sono revocate, né sono svanite o perdute, inafferrabili epifanie, ma sono attese, perché si rivelino nella loro verità: “fu un lampo, il tempo di guardare oltre le finestre aperte/ dei balconi. Quella rincorsa, giorno dopo giorno, al compito./ Quanto bastò perché l’albero tornasse ad essere albero,/ la città nuovamente città, e noi ancora noi,/ voci emerse dal fondale del momento” [Senza preavviso].



Questa intuizione che riconosce nel “fondale” la dimensione autentica dell’esistenza e della poesia rende ragione dell’altro polo delle liriche di Manes, un polo statico, che completa la tensione dinamica descritta fino a qui. La scoperta che il poeta raggiunge una volta affondato nella soglia dell’insondabile è che questo abisso possa essere in realtà abitato. Per usare versi già citati: “ci schiacciava l’azzurro e chiedeva di noi”. La profondità è la nostra dimora, è la prospettiva a cui tendiamo nella risalita, ma anche l’origine che “chiede di noi” — l’origine a cui realmente apparteniamo. In effetti molte delle poesie si chiudono non nella protensione a un quo, ma nella definizione di un ubi, “un punto a cui appartenere” [Sulla soglia]. Il “fondale” raggiunto è il luogo “dove tutto/ rientrava nella regione intravista” [La sosta], “dove nuovi sono gli alberi e le distese attorno” [La rincorsa dell’oceano], “dove rimane un’uscita/ a dirci che siamo ancora” [Dentro lo scavo]. 

L’insistenza nei versi sull’immagine già citata del lampo in fuga lascia intendere quanto sia intenso il dialogo tra queste poesie e alcune liriche di Baudelaire, in particolare A una passante. La riflessione svolta fin qui mi conduce però a indagare un altro rifermento capace di illuminare l’opera di Manes. La percezione di una dimensione ulteriore, conosciuta e descritta come profondità, che rappresenta al tempo stesso l’origine dell’essere e la meta del suo cammino evoca in me il ricordo della poesia del Purgatorio. Il nesso risulta fin dal verso che intitola l’intera raccolta: “come una pietra dentro la visione”. Dante, seguendo con lo sguardo l’anima di Guido Guinizzelli che svanisce nel fuoco purificatore del XXVI canto del Purgatorio, così lo descrive: “Poi, forse per dar luogo altrui secondo/ che presso avea, disparve per lo foco/ come per l’acqua il pesce andando a fondo”. L’arsura delle fiamme è tramutata nella profondità rigenerante dell’acqua, nella quale il penitente ritrova il suo locus, tanto quanto l’abisso del mare è l’habitat del pesce. La discesa, l’ascondimento che cela a Dante il volto dell’amico, avvicina Guinizzelli al godimento della verità. Sprofondare, in quei versi, non significa consumarsi, svanire nell’abisso non è perdersi, ma accedere a un livello superiore dell’essere. Anche i beati del Paradiso, a più riprese, paiono a Dante come riflessi dal profondo: non più colti nella fatica della discesa, nella tensione dell’affinamento, ma ormai pervenuti al fondale del gran mare dell’essere, accolti in un lago di luce.

Non diversa da questa intuizione è la percezione del profondo in Manes: la nave che affonda come la pietra dentro la visione, tanto quanto Guinizzelli-pesce nella fiamma-onda, è trascinata da una forza di gravità misteriosa alla radice dell’essere, in una dimensione ontologica più autentica. Il sentimento che si ricava dagli incontri-abbandoni che popolano le poesie della raccolta è di nostalgia tesa ed intensa. È anche questa una nota purgatoriale: non c’è rimpianto né rottura, ma come un addio a chi sia balzato oltre, in una dimensione che forse può essere anche nostra, che forse ci appartiene e che, chissà, potremmo ritrovare. “Fuggitivo lampo, in volata mentre la testa/ sbatte, non tornerai? Perché forse, la vita è più della vita (…)”. Eppure, come le anime di quel mondo, così i personaggi di Manes ci paiono figure sospese, sul crinale, in bilico tra opposte alternative. La loro poesia si colloca un attimo prima che si compia la scelta, nella vertigine in cui l’attesa è al culmine e tutto può ancora accadere. 

Mi torna alla memoria un’altra splendida passante della storia della letteratura: una passante dantesca, che veramente realizza il desiderio baudelairiano di un nuovo incontro nell’eternità. È quella Pia dei Tolomei il cui saluto, così nostalgico e sussurrato, le tante voci femminili delle poesie di Manes mi hanno ricordato. In lei, così come nei migliori dei versi di Manes, è raggiunta la conciliazione tra il polo dinamico e il polo statico del “fondale”. Pervenuto nel profondo il poeta scopre questa soglia come spazio autentico di sé, dimensione abitabile, dalla quale tutta la propria esistenza può essere ricompresa: “Ricorditi di me, che son la Pia/ Siena mi fe’, disfecemi Maremma/ salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua gemma”.

Come una pietra dentro la visione” di Luca Manes (Minerva edizioni 2018) viene presentato mercoledì 16 maggio ore 18.15 nell’Auditorium del Centro Culturale di Milano, Largo Corsia dei Servi 4.
Intervengono, oltre all’autore: Giancarlo Pontiggia, critico e poeta, Liana Nissim, do
cente emerito di letteratura francese e francofona nell’Università di Milano, Carmine Di Martino, docente di gnoseologia nell’Università di Milano. Coordina Riccardo Sturaro.