Storia, vicende e personaggi legati al fascismo sono diventati uno degli argomenti più attuali del dibattito politico. Ma quanti possono affermare, con sincerità e sicurezza, di sapere che cosa veramente è stato il fascismo? Giunge dunque a puntino il libro Eventi e protagonisti del Ventennio fascista (Archivio Storia, 2018) scritto dal giornalista e storico Luciano Garibaldi e dalla figlia Simonetta Garibaldi, già coautori di testi di storia divulgativa come Genova e i Mille e Adolf Hitler. Il tempo della svastica (oltre 40 i libri di storia di Luciano Garibaldi, il più noto dei quali è La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?, Ares 2016).
“Con il libro dedicato al Ventennio — ci dice Luciano Garibaldi — abbiamo cercato di storicizzare il periodo più intenso del Novecento italiano, fornendo del Ventennio un ritratto in controluce: né tutto male, né tutto bene. In effetti, in quegli anni furono varate leggi e realizzate riforme sicuramente positive come, ad esempio, il blocco dell’inflazione e della svalutazione della lira, l’istituzione della previdenza sociale, la bonifica delle paludi, la conciliazione tra Stato e Chiesa. Per contro, si verificarono eventi deprecabili come le leggi razziali, la fine della libertà di stampa, la folle entrata in guerra contro Francia e Inghilterra, l’attacco disastroso alla Grecia”.
Oltre alla storia del Ventennio, raccontata con stile giornalistico nei trenta capitoli dedicati agli “eventi” (dalla “marcia su Roma” alla fine di Mussolini sul Lago di Como), il lettore potrà ripercorrere le brevi e stimolanti biografie degli ottanta principali personaggi della storia italiana del Ventennio: sia le figure più rappresentative del fascismo, sia gli esponenti dell’opposizione. “Di ognuno di essi — ci dice Luciano Garibaldi — abbiamo raccontato la vita, le imprese, le opere e i drammi, in maniera piana e facile, in modo che questo lavoro possa essere utile anche e soprattutto alle giovani generazioni, aiutandole a farsi un’idea delle vicende italiane di quegli anni attraverso le storie incrociate dei protagonisti”. Alcuni nomi: Pietro Badoglio, Galeazzo Ciano, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio, Alcide De Gasperi, Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, (ovviamente) Mussolini con Claretta Petacci, Pietro Nenni, Pio XII, Carlo e Nello Rosselli, Palmiro Togliatti, Umberto II e Vittorio Emanuele III. Abbiamo rivolto alcune domande a Luciano Garibaldi.
Tra i capitoli più negativi del Ventennio vi furono le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei. Come e perché vi si giunse?
Abbiamo riferito ampiamente su questa pagina vergognosa della nostra storia. Il 14 luglio 1938, su Il Giornale d’Italia, allora il più importante quotidiano della capitale, fu pubblicato il “Manifesto della razza” redatto da “un gruppo di studiosi fascisti” — così recitava la premessa — “sotto l’egida del ministero della Cultura popolare”. Fino a quel momento, nulla, proprio nulla lasciava presagire una scelta di campo antisemita. Che cosa spinse Mussolini a compierla, nell’estate 1938? Prima ancora che per compiacere il nuovo alleato Adolf Hitler, fu il dispetto per l’ostilità nei confronti dell’Italia fascista, manifestata nei circoli ebraici internazionali, soprattutto inglesi e americani, e sulla grande stampa controllata da magnati ebrei. La “marea antisemita”, come la definì Giovanni Gentile, culminò nel Regio decreto legge 17 novembre 1938 numero 1728, che accolse tutte le indicazioni del Gran Consiglio trasformandole in legge dello Stato. Degli 8566 ebrei italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, ne sarebbero tornati 1009. Malgrado questa tragica realtà, i tedeschi continuavano a protestare che “la politica razziale in Italia è stata una burla e una truffa”.
Altra pagina nera del Ventennio può sicuramente considerarsi la fine della libertà di stampa, con la soppressione fisica di chi, come Giovanni Amendola, era irriducibilmente ostile al regime.
Sicuramente, e non a caso vi abbiamo dedicato due capitoli del nostro lavoro. A cominciare dalla redazione dell’Avanti, continuamente assalita dalle squadre fasciste e incendiata per ben tre volte, tutto il 1923 fu caratterizzato da assalti e incendi di giornali grandi e piccoli di opposizione, e aggressioni a giornalisti antifascisti, mentre il 5 luglio veniva varato un decreto legge governativo di inaudita gravità contro la libertà di stampa. Tale decreto stabiliva che i direttori responsabili dei giornali (allora si chiamavano “gerenti responsabili”), già in carica o all’atto della loro nomina, dovevano ottenere il “riconoscimento” del prefetto.
Un comodo e facilissimo sistema per far fuori tutti i direttori non graditi.
Sì. Il decreto stabiliva inoltre che il sequestro dei giornali (per il reato di “diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”, quelle che ora si chiamano “fake news”) avrebbe potuto essere effettuato “dalla pubblica sicurezza”, anche senza l’intervento della magistratura. Tutto ciò significava mettere la stampa nelle mani di prefetti e questori. Il “redde rationem” arrivò dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, allorché il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini, ben presto seguito da Alfredo Frassati, direttore de La Stampa, e dai più autorevoli direttori e cronisti, prese nettamente posizione contro il governo, iniziando una vera e propria campagna tesa a costringere Mussolini a dimettersi. La campagna fece impennare le vendite del Corriere, che raggiunse le 800mila copie. Da quel momento, ebbero inizio le grandi manovre per mettere a tacere il Corriere e La Stampa. Albertini fu dapprima “diffidato” dal prefetto, poi i Crespi lo convinsero a vendere la sua quota di proprietà e a togliere il disturbo. A Torino, in un primo tempo La Stampa fu sospesa per ordine del prefetto, poi, il 9 novembre, Frassati diede le dimissioni. Il cerchio si chiuse con il decreto legge 31 dicembre 1925 che istituiva la censura e creava il ministero della Stampa e Propaganda (in seguito della Cultura popolare, detto “Minculpop”) con il precipuo compito di indirizzare i giornali in senso favorevole al governo. All’opposizione restavano l’irriducibile Amendola, con il suo settimanale Il Mondo e alcuni giornali di partito. Ma Amendola fu assassinato a bastonate da un squadra fascista, e i quotidiani di partito furono soppressi con un’apposita legge dopo il fallito attentato di Bologna alla vita del duce del 31 ottobre 1926.
Una delle accuse più pesanti lanciate contro il fascismo è quella di avere trascinato l’Italia nella seconda guerra mondiale pur sapendo che le nostre forze armate erano impreparate ad affrontare una prova così tremenda. Ma davvero Mussolini, se lo avesse voluto, avrebbe potuto lasciare il Paese fuori dal conflitto, così come Francisco Franco riuscì a fare con la Spagna?
In proposito c’è un episodio poco conosciuto. Il 10 marzo 1940 Hitler — che dal settembre 1939, dopo avere invaso la Polonia, era in guerra con Francia e Gran Bretagna — inviò a Roma il ministro degli Esteri Von Ribbentrop con un messaggio che sollecitava l’entrata in guerra dell’Italia. Ma Mussolini tergiversò: l’esercito non era pronto. Il 18 marzo il Führer e il Duce si incontrarono al Brennero. Hitler insistette: un attacco italiano alla Francia dal mare e dai passi alpini avrebbe potuto alleggerire notevolmente l’azione delle truppe corazzate di Guderian. In quegli stessi giorni Mussolini era fatto oggetto di drammatici appelli sia da parte di Roosevelt sia da parte del nuovo premier francese Paul Reynaud (che aveva appena preso il posto dell’antifascista dichiarato Édouard Daladier) affinché mantenesse l’Italia fuori dalla mischia. Nulla poteva impedirgli di fare quella scelta. E invece, i crescenti successi militari della Wehrmacht in territorio francese finirono per convincere Mussolini, che il 30 maggio annunciò a Hitler la decisione di entrare in guerra al suo fianco e il 10 giugno fece consegnare la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna.
Quali sono invece a vostro giudizio le riforme positive attuate nel ventennio fascista?
L’elenco dei capitoli positivi non è da poco. Basta ricordare i successi ottenuti, dall’Italia, nelle scoperte scientifiche, nel cinema, nello sport, nella radio. Senza dimenticare la storica Conciliazione tra Stato e Chiesa sottoscritta l’11 febbraio 1929, alla quale abbiamo dedicato lo spazio che indubbiamente meritava. Ma la riforma più importante, destinata a segnare positivamente il futuro dei rapporti sociali, fu l’avvento del corporativismo, al quale fece seguito la “Carta del Lavoro” che stabilì tra l’altro il principio dell’assunzione a tempo indeterminato, il licenziamento per giusta causa, l’obbligo di corrispondere una liquidazione al lavoratore licenziato, il contratto collettivo di lavoro, la previdenza obbligatoria a carico del padrone, la cassa malattia, le ferie retribuite. Tutti istituti che prima non esistevano e che, ancora oggi, rappresentano una sicura garanzia per i lavoratori italiani.