In fondo tutta la storiografia della Resistenza è simbolicamente riassumibile nella scritta posta su un monumento ad Alba davanti alla casa di Beppe Fenoglio. “Alba la presero in duemila il 10 ottobre dell’anno 1944”. Una frase tratta dal racconto I ventitré giorni della città di Alba, di uno splendore ferale ed eroico: ma la frase non è completa, perché il memorabile incipit del racconto di Fenoglio, fiero di essere stato partigiano ma alieno da ogni retorica o menzogna è il seguente: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”. Il puritano partigiano Johnny non si sentiva a suo agio tra gli italiani. Sapeva bene che, se a far festa erano stati tanti, a combattere sarebbero stati pochi. E allora viene da chiedere perché si debba manipolare anche Fenoglio e dire solo una parte della verità. Purtroppo molta parte della storia della Resistenza consiste in questo sottacere, velare e contraffare, col risultato di non far conoscere o addirittura far disprezzare gli immensi tesori che quell’epopea ha lasciato alle generazioni successive.



Pochi periodi storici sono più affollati di misteri e di cose non chiarite, a partire dall’esecuzione di Mussolini il 28 aprile 1945 alla cui versione ufficiale non crede più nessuno. Di misteri, in quella rossa primavera del 1945, ce ne sono davvero tanti, a partire dalle morti misteriose di tanti partigiani non comunisti e uno dei più irrisolti è quello della morte di Aldo Gastaldi, il leggendario comandante “Bisagno”, cattolico intransigente a capo di una divisione Garibaldi controllata dai comunisti, operante in Liguria.



La questione è tornata recentemente di attualità sia per il libro di Pansa Uccidete il comandante bianco sia per un documentario commovente e rigoroso di Marco Gandolfo e che ha suscitato le ire dell’Anpi e dell’Istituto ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (Ilsrec). Va detto, onestamente, che Pansa appare certo che Gastaldi sia stato ucciso ma non porta alcun elemento a sostegno di questa tesi mentre il documentario di Gandolfo si limita a riportare i sospetti di alcuni partigiani, senza però minimamente entrare nel merito dell’incidente stradale in cui morì Bisagno.



Come premessa storica si consiglia il lettore di riprendere un precedente articolo. Ecco come morì Bisagno nella ricostruzione ufficiale. Subito dopo la liberazione di Genova, Gastaldi aveva voluto accompagnare nel loro ritorno ai paesi di origine alcune decine di partigiani del bresciano e della zona del lago di Garda. Si trattava di ex alpini della divisione Monterosa della Repubblica Sociale che avevano disertato per unirsi ai partigiani sotto il comando dello stesso Gastaldi. Nel clima arroventato della fine della guerra sarebbe stato alquanto probabile che qualche partigiano volesse vendicarsi di atti commessi da ex nemici, per quanto quei valorosi si fossero battuti magnificamente, mettendo a frutto, proprio contro i tedeschi e i fascisti, l’addestramento appreso in Germania. Lo stesso loro comandante, maggiore Paroldo, ammette di aver avuto paura di queste vendette.

Compiuta la propria missione, il 21 maggio 1945 Bisagno ripartì da Riva del Garda. Durante il viaggio di ritorno volle salire sul tetto del camion per cantare a squarciagola le sue canzoni preferite. Poi, all’altezza di Bardolino, un sorpasso azzardato del camion, una sterzata brusca per evitare un veicolo che proveniva in senso opposto e Bisagno, colto alla sprovvista, cadde dal tetto finendo sotto le ruote del rimorchio. Raccolto ormai morente, si spense all’ospedale di Desenzano tra il dolore dei suoi.

Sospetti sulla morte di Bisagno iniziarono a circolare quasi subito. Data l’enorme popolarità di Gastaldi è difficile capire perché, se la salma giunse nella serata del 21 a Genova, la notizia della morte venne diffusa solo alla sera del 22 maggio e su giornali della Democrazia cristiana e del Partito d’azione. Gli altri quotidiani dettero la notizia la mattina del 23 poco prima dei funerali. L’Unità fu molto precisa nel descrivere i fatti, indicando anche l’ora dell’incidente, avvenuto alle 9.30 del mattino.

Voci su un possibile assassinio di Bisagno furono poi raccolte dai cappellani delle carceri che avevano modo di parlare con alcuni partigiani che erano lì rinchiusi tra il 1946 e il 1947 e sono continuate fino ad oggi, costantemente smentite.

Proviamo allora a ricostruire quanto accaduto tra il 19 e il 21 maggio, basandoci soprattutto sui documenti pubblicati sul sito dell’Ilsrec a fine marzo 2018 da Franco Gimelli e sul volume Bisagno: la vita, la morte e il mistero (Le mani, 2003) del partigiano Elvezio “Santo” Massai, partigiano, e del giornalista Pier Luigi Stagno. Un libro quasi introvabile. Esaurito da tempo, vi sono solo due copie in tutta Italia: nella biblioteca comunale di Santa Margherita Ligure e in quella dell’Istituto per la Storia dell’Età contemporanea a Sesto San Giovanni.

Il 19 maggio Bisagno partì da Genova per la zona del Garda, accompagnato dal partigiano “Dorino” e da un certo Filipazzi come autisti e una trentina di alpini (secondo il comandante partigiano Giovan Battista Canepa “Marzo” e Adolfo Burlando “Barbera”, una settantina) su un camion con rimorchio, un grosso Fiat 666: un bestione di 6 tonnellate, largo più di due metri, lungo sette con velocità massima 48 kmh. Con una grossa camionetta Volkswagen preda di guerra partirono anche una decina di alpini, comandati dal maggiore Paroldo, comandante degli alpini, con Barbera come autista. Da notare che il comandante partigiano G.B. Canepa chiamava Filipazzi con un altro nome: Spalanzani. I due veicoli fecero un percorso comune fino a Piacenza poi si divisero. La camionetta era più veloce e sarebbe andata nel mantovano per accompagnare gli alpini della bassa padana, mentre il camion sarebbe andato al lago di Garda. Appuntamento a Peschiera per andare poi a Torbole a casa di Paroldo a nord del lago di Garda. Nei pressi di Guastalla la frizione della camionetta si guastò ma riuscì a raggiungere Mantova. Lì Paroldo e Barbera riuscirono a procurarsi un carro attrezzi e con quello raggiunsero Peschiera nella mattinata del 20, avendo dormito tra Mantova e Desenzano. Il giorno dopo, secondo Barbera, la camionetta fu issata sul rimorchio dato che si era liberato del posto. Secondo Paroldo la camionetta fu lasciata sul rimorchio in una strada di Peschiera ma ciò appare strano perché nessuno avrebbe abbandonato un veicolo di quel valore incustodito. Più probabile che il rimorchio fosse agganciato al camion, un particolare importante al momento dell’incidente.

La sera del 20 il gruppo arrivò a Torbole a casa di Paroldo e tutti andarono a cena dalla famiglia del maggiore. Bisagno dormì a Riva del Garda e ripartì per Genova la mattina del 21 dopo colazione con Filipazzi al volante (versione Marzo/Barbera). Sia Paroldo che Dorino riportano lo stesso orario di partenza, poco prima delle nove del mattino. Durante il viaggio Bisagno, nonostante il parere contrario dei compagni, volle arrampicarsi sul tetto stando semisdraiato sulla sinistra e Barbera lo raggiunse, seduto a destra. Va detto, per completezza, che secondo quanto narrato dal maggiore Paroldo, già all’andata Bisagno era salito sul tetto del camion due o tre volte. Poi il sorpasso, la cunetta, Bisagno che cade a sinistra del camion e rimane schiacciato sotto le ruote. Il luogo dell’incidente, secondo Barbera, si trova all’altezza di Bardolino.

Sempre secondo la versione di Barbera, Gastaldi (e il fatto è esibito come prova da Franco Gimelli dell’Ilsrec) venne raccolto morente e adagiato sul camion, accudito dallo stesso Barbera mentre Dorino si era messo al volante. Arrivati all’ospedale di Desenzano, Bisagno cessò di vivere subito dopo. Secondo Barbera potevano essere le nove del mattino, ma ciò appare del tutto improbabile visto che coincide con l’ora di partenza da Torbole. Dorino e Barbera andarono dai carabinieri e li portarono sul luogo dell’incidente dove era rimasto Filipazzi, seduto a terra, inebetito. Paroldo ebbe la notizia da Dorino alle 13 mentre era a pranzo a Torbole. Accorso a Desenzano, vi arrivò alle 15.30 per constatare la morte di Gastaldi. Va notato che, sebbene i carabinieri fossero intervenuti, nessuno seppe indicare che l’ospedale più vicino era quello di Bussolengo a 14 km di distanza e non quello di Desenzano a 28 km.

Questa l’unica versione firmata da uno dei tre testimoni e che fu raccolta da Marzo per “sfatare quella leggenda … dovuta a ignoranza e a ignobile speculazione politica”. Di Dorino lo studioso dell’Ilsrec cita con molta enfasi una confidenza raccolta dal partigiano Michele Patrone: questi afferma che Dorino, a Rapallo, gli avrebbe confessato che la colpa della morte di Bisagno era sua perché era lui alla guida del camion. Si tratta però di una dichiarazione che contraddice quella di Barbera in tre punti: 1) data il funerale di Bisagno al 17 maggio anziché al 23; 2) al volante c’era Dorino e non Filipazzi; 3) al posto di Filipazzi si parla di un certo Nebbia che non compare in altre versioni. Incomprensibile, quindi, la scelta di Franco Gimelli di pubblicare due testimonianze così contraddittorie.

Di Filipazzi esiste solo una lettera indirizzata ai genitori di Aldo Gastaldi che nulla dice sulle circostanze e pare più scritta da un prete che da un camionista. 

Di Dorino esiste invece una dichiarazione resa nel 1968 ai genitori di Gastaldi secondo la quale il 21 maggio il camion ripartì verso le nove facendo salire sul rimorchio una trentina di persone che chiedevano un passaggio. L’incidente avvenne nei pressi dell’11esimo chilometro della strada, vicino a una cappella. Fondamentale, nella ricostruzione, la presenza di una scarpata, a lato della strada, dove Bisagno sarebbe caduto per poi scivolare sotto le ruote del camion (o, più probabilmente, del rimorchio).

Non vi fu nessuna istruttoria sulla morte. Filippazzi non venne interrogato, così come non lo furono le trenta persone che viaggiavano sul camion (o sul rimorchio). Nessuna autopsia. Irreperibili i verbali dei carabinieri intervenuti. Nessuno dei testimoni, nemmeno Paroldo, sa indicare il luogo dell’incidente che, secondo la dichiarazione rilasciata al comune di Desenzano, sarebbe avvenuta sulla strada Verona-Peschiera quindi nemmeno lungo il Garda. Le ricerche di Stagno e Massai hanno permesso di individuare il probabile luogo dell’incidente a Cisano a un’ora di strada da Torbole. Questo, però, con una strada oggi più larga e con auto moderne. Un Fiat 666 con condizioni di traffico pesante e che fece numerose soste per caricare passeggeri può aver impiegato anche due ore di tempo per arrivare a Cisano.

Paroldo, malgrado sia del posto, non è in grado di riconoscere il luogo dell’incidente perché hanno costruito molto ed è irriconoscibile. Dalle dichiarazioni di Dorino, Massai e Stagno hanno identificato il luogo dell’incidente all’11esimo km della Gardesana poco fuori il paese di Cassone. C’è anche la cappelletta (a esser precisi un’edicola) di cui parla Dorino nella sua testimonianza. Come si può vedere dalla foto di Google maps è una strada molto stretta dove è difficile ipotizzare un sorpasso, specie per un camion con rimorchio, grosso come il Fiat.

Questa la foto da Google maps della strada in direzione Peschiera con visibile l’edicola poco fuori Cisano. Manca però un elemento essenziale cioè la scarpata su cui Bisagno sarebbe caduto per poi scivolare sotto il rimorchio.

Poco più lontano, a Lazise, c’è un punto che può essere più consono all’incidente con la scarpata di un metro e mezzo descritta da Dorino sulla sinistra.

Qui si innesta un elemento sospetto che, tuttavia, non ha mai avuto riscontri sufficienti. Massai riferì una confidenza di Dorino secondo cui, in una sosta a un punto di ristoro durante il viaggio di ritorno, un signore di Piacenza offrì un caffè a Bisagno. Subito dopo il comandante cominciò a comportarsi in modo strano, regalando denaro e documenti riservati che portava con sé. Una circostanza abbastanza strana e quasi romanzesca. Massai ha pure narrato di un medico della divisione Garibaldi, il dottor Grumberg, che avrebbe praticato delle iniezioni al cadavere di Bisagno per far scomparire eventuali tracce di veleno. In realtà Grumberg non si mosse mai da Genova e fu facile confutare tale affermazione tanto da minacciare un’azione legale nei confronti di Massai che dovette ritrattare. 

A corroborare questa tesi vi è, tuttavia, una testimonianza eccezionale: quella di Gino Lunetti, cugino di Aldo Gastaldi, contenuta in I giusti del 25 aprile: chi uccise i partigiani eroi? (Ares 2018) di Luciano Garibaldi. Lunetti racconta che la vicenda del caffè gli venne raccontata anche da Barbera (p. 58). Inoltre, la mattina del 22 maggio 1945, a Lunetti venne permesso di vegliare la salma di Bisagno in qualità di parente. In quell’occasione Lunetti poté constatare che il torace di Aldo Gastaldi era integro. Come se non bastasse, sia la mattina del 22 che il giorno successivo Lunetti dichiara di aver visto Grumberg praticare iniezioni al cadavere. Sul momento gli venne spiegato che si trattava di iniezioni di formalina per conservare il corpo (pag. 60 e 61).

In definitiva le testimonianze sono così scarse, confuse e contraddittorie da non poter stabilire un quadro coerente dell’evento. A favore della tesi dell’incidente sta però il fatto che la tesi dell’avvelenamento e del finto incidente davanti a decine di testimoni appare alquanto macchinosa. Se a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire, l’incidente appare la versione più coerente. Tuttavia, sempre applicando lo stesso criterio, vi è un’altra versione che appare più attendibile: Gastaldi fu avvelenato e non vi fu nessun sorpasso, nessun incidente. Contro questa tesi non ci sono autopsie, verbali delle forze dell’ordine o di testimoni che non siano Dorino e Barbera. Lo stesso fatto di portare Gastaldi morente a Desenzano anziché a Bussolengo potrebbe celare un piano preordinato. Ora, se si considera la contraddittorietà delle versioni, non risolta ma addirittura aggravata con la pubblicazione degli ultimi documenti, il sospetto non può non permanere. Una soluzione ci sarebbe: riesumare il corpo di Aldo Gastaldi, non per trovare tracce di veleno, che col tempo potrebbe essere scomparso, ma almeno per un esame autoptico sulla cassa toracica. Come si è visto nella terza puntata, morti violente di partigiani non comunisti sono state tutt’altro che infrequenti e quella di Bisagno rientra in quel contesto.

Il termine di questo viaggio nella Resistenza può essere simbolicamente rappresentato dallo splendido monumento eretto a Fascia. Qui Bisagno veglia ancora, con lo sguardo fisso sulla vallata sottostante e sul nostro Paese, in attesa di altri giovani che vogliano emulare la sua gioiosa voglia di vivere e di lottare per la libertà in una Resistenza al Male, al Nulla che, ora più che mai merita di essere riscoperta.

(4 – fine. Leggi qui la terza puntata)