Il filosofo Massimo Borghesi, autore di innumerevoli studi sulla Chiesa contemporanea e su papa Francesco, il cui ultimo libro è dedicato proprio a lui, ha rilasciato un’intervista alla rivista spagnola Páginas Digital che qui riprendiamo. In essa spiega come pelagianismo e gnosticismo stiano attaccando la Chiesa dal suo interno.
Nella recente esortazione apostolica di Francesco, Gaudete et Exsultate, c’è un intero capitolo dedicato alla spiegazione dei pericoli del pelagianesimo e dello gnosticismo. Questa è una costante negli ultimi interventi del Papa. Perché nel pensiero di Bergoglio queste due antiche eresie sono associate alla mondanità?
Perché esprimono la secolarizzazione dentro la Chiesa, non fuori di essa. Il pericolo per la fede, oggi, proviene, secondo il Papa, non tanto e non semplicemente dalle ideologie mondane quanto dalla mondanizzazione interna alla Chiesa medesima. Il “mondo” è dentro la Chiesa e non semplicemente “fuori”. In ciò Francesco riflette pienamente la persuasione di Henri de Lubac, uno dei suoi grandi maestri ideali. Scriveva de Lubac in Meditation sur l’Église: “Ma il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste vittorie, è quella che Dom Vonier chiamava ‘mondanità spirituale’. Con questo noi intendiamo, diceva, ‘un atteggiamento che si presenta praticamente come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore, ma l’uomo e la sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico; ecco la mondanità dello spirito'”. Pelagianesimo e gnosticismo sono l’espressione di questa mondanità spirituale oggi. Il Papa ne parla ripetutamente. Nella Evangelii gaudium, ai paragrafi 93-97, nel suo discorso alla Chiesa italiana del 10 novembre 2015, nel capitolo secondo della Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Essi vengono richiamati anche nella Lettera Placuit Deo, del 22 febbraio 2018, ad opera della Congregazione per la dottrina della fede.
Perché gnosticismo e pelagianesimo costituiscono i due pericoli per il cristianesimo oggi?
Perché sono gli abiti mentali che impediscono la dimensione missionaria della Chiesa, la consapevolezza, che essa dovrebbe avere, di portare un dono di grazia di cui non ha merito, non è opera sua. Gnosi e pelagianesimo favoriscono, al contrario, il clericalismo, una pretesa di perfezione immanente dovuta al ragionamento o all’operare dell’uomo. Gnosi e pelagianesimo si oppongono alla grazia, al primato della Grazia. Francesco, che ha una sensibilità sociale fortissima, è, nella sua radice spirituale, un mistico. L’agire del cristiano nel mondo si fonda sull’incessante domanda, da parte dell’uomo, della Presenza di Dio.
Cosa sostengono invece gnostici e pelagiani?
Portano avanti un progetto che, in nome di Dio, è radicalmente antropocentrico. Dal punto di vista ignaziano cercano la propria gloria, non quella divina. Nella Evangelii gaudium si afferma, al n. 94: “Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un élitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore”.
Francesco afferma che lo gnosticismo è una delle ideologie peggiori. Che importanza ha questa denuncia? Il Papa sta rispondendo a tutto quel pensiero che attraversa la modernità e le sue “soluzioni idealiste” di un Cristo senza storia, senza carne?
Uno dei quattro principi, che costituiscono l’architettura del pensiero di Bergoglio, afferma: “La realtà è superiore all’idea”. Questo fa comprendere quanto il Papa sia distante dall’ideologia idealistica. Per la gnosi, che costituisce l’essenza dell’idealismo, la fede dipenderebbe, oggi, dalla custodia della “retta dottrina” da parte di un’élite di ortodossi che vedono ovunque, nella Chiesa come nel mondo, semi di corruzione e di disfacimento. Solo essi mantengono, nel mondo perverso, la purezza della fede. Non si fa fatica a cogliere in questa pretesa “elitaria” la reazione dei tradizionalisti nella Chiesa odierna. Per questi zelanti, che non si mescolano con gli “impuri”, tutta la Chiesa, dal Concilio Vaticano II in avanti, è segnata da un cammino inesorabile di decadenza. Solo essi rimangono, nell’ombra, a custodire la luce che tornerà a brillare. In Gaudete et exsultate Francesco afferma che “Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono “un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo” (n. 37). Nella Evangelii gaudium il Papa scrive che “In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”.
Questa corrente di pensiero che conseguenze porta?
Lo dice il papa: “Ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del ‘si dovrebbe fare’ – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è autenticamente aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci rubare il Vangelo!” (n. 96-97).
Il Papa segnala che il pelagianesimo e il semipelagianesimo sono ancora presenti nella Chiesa: si parla di grazia, ma si pensa che tutti possano fare tutto. Qual è la traiettoria personale e intellettuale che porta il Papa a dare questo giudizio sul valore della grazia non rispettato?
Se la gnosi qualifica, oggi, la destra cattolica il pelagianesimo è un’eredità della sinistra. Un’eredità che oggi caratterizza la mentalità di tanti conservatori. Essa deriva dall’idea, corretta, che l’agire del cristiano porti un contributo di novità nel mondo. Un agire, certo, illuminato e guidato dalla Grazia. Epperò nei pelagiani la Grazia diviene un “presupposto”, non una domanda. Essi partono dal presupposto che la fede garantisca esiti migliori, perfetti, sicuri, e, a partire da ciò, ne traggono un giudizio di condanna senza appello verso il mondo esterno. Dimenticano che ciò che sono e ciò che hanno non è loro “proprietà” ma un dono che ogni giorno deve essere domandato. Una fortuna di cui essere grati e non presuntuosi. Nel criticare questa pretesa, che si sposa con la posizione gnostica nel suo elitarismo critico verso la massa, Francesco si incontra pienamente con sant’Agostino. In Gaudete et exsultate scrive che “Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico. Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che ‘non tutti possono tutto’ e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e ‘a chiedere quello che non puoi’; o a dire umilmente al Signore: ‘Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi’. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo”.
Francesco cita il II Sinodo di Orange: tutto quel che può cooperare con la grazia è precedentemente dono della grazia, come se volesse sottolineare che anche la natura e la libertà sono grazia. Che valore ha un’affermazione del genere nel nostro contesto culturale ed ecclesiale?
Mi ha molto colpito la ripresa, da parte di Francesco, dei canoni del Concilio di Orange del 529 d.C. Era stata la rivista internazionale 30 Giorni, che, tra il febbraio 2008 e il settembre 2009, aveva pubblicato i canoni del Concilio. Bergoglio era allora un attento lettore di 30 Giorni. Quello che è certo è che Gaudete et exsultate mostra, in modo inequivocabile, l’anima “agostiniana” del Papa riguardo alla concezione della Grazia. Il “primear” della Grazia si chiarisce come un punto fondamentale del suo magistero. I suoi avversari che lo hanno accusato di essere un pelagiano, un gesuita molinista, un modernista che teorizza il primato della prassi, documentano, oltre che alla malafede, anche una profonda dose di ignoranza. Dio ci anticipa sempre: questo è l’insegnamento del Papa. Il “Dio sempre più grande” ci interpella ogni giorno, provoca i nostri sistemi, ideologie, chiusure. Apre i cuori di carne. Per questo non siamo giustificati dalle nostre opere. Come è detto in Gaudete et exsultate: “Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: ‘Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo’. Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento dogmatico: ‘Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)'”.
Dove si situa la possibilità, per la fede, di superare la tentazione gnostica e quella pelagiana?
Le rispondo con le parole che papa Francesco mi ha rilasciato in una intervista e che ho riportato nel mio volume Jorge Mario Bergoglio, una biografia intellettuale: “Per me nell’Incarnazione c’è la debolezza e la concretezza del cattolico. Nell’Incarnazione si risolve il pelagianesimo e lo gnosticismo. Ambedue le eresie negano la debolezza di Dio o la forza di Dio. […] Certamente mi è sempre piaciuto andare all’Incarnazione per vedere la forza di Dio contro la forza, tra virgolette, pelagiana e la debolezza di Dio contro la ‘forza’ gnostica. Nell’Incarnazione si ha il giusto rapporto. Se noi leggiamo, per es., le Beatitudini o Mt 25, che è il protocollo con il quale saremo giudicati, troveremo questo: nella debolezza dell’Incarnazione si risolvono i problemi umani, le eresie. Qual è il punto più grande in cui si manifesta questa debolezza dell’Incarnazione? Efeso. Credo che Efeso sia la chiave per capire il mistero più grande dell’Incarnazione. Quando il popolo grida ai vescovi, all’entrata della cattedrale: ‘Santa Madre di Dio!’. E’ il momento in cui la Chiesa proclama Maria madre di Dio. Cosa vuol dire questo? C’è la debolezza e la fortezza nell’Incarnazione”.