Philip Roth (1933-2018): due o tre cose che so di lui (per echeggiare il titolo di un noto film di Godard), e che poi “so” soltanto nel senso di conservare un paio di impressioni, un paio di ricordi più o meno indiretti.

Doveva essere una sera dei tardi anni Sessanta o i primi Settanta: un gruppetto di letterati di belle speranze (terribile frase!), americani e italiani, passeggia per Greenwich Village a Manhattan. Improvvisamente uno di loro mi urta col gomito e sussurra: “L’hai vista quella?”, indicando una signora che usciva da un ristorante, e che io scorgo soltanto con la coda dell’occhio; rispondo all’amico con uno sguardo interrogativo, perché non capisco bene il motivo di tale segnalazione: è una signora che mi è parsa bionda e ben portante, tutto qui. Ma il mio amico non intendeva affatto fare un commento più o meno galante su una bella ragazza; e mi spiega che quella donna è l’originale della protagonista femminile, anni prima, di uno dei più bei racconti americani di quell’epoca (che ancora resiste al passaggio del tempo): la novella di amore e breve gioia scritta dal giovane Philip Roth, che darà il titolo alla raccolta comprendente altri cinque testi più brevi, Addio Columbus (Goodbye Columbus). E’ il primo vero libro di Philip Roth — che poi coltiverà di preferenza il genere del romanzo piuttosto che quello del racconto —, il libro che vincerà il National Book Award e che subito ne determinerà la statura di scrittore. La quale statura si riflette anche (non disprezziamo i piccoli dettagli, in letteratura) nell’episodietto appena raccontato: quello scrittore già gode di una riconoscibilità immediata e tanto più notevole in quanto indiretta (una ragazza toccata dalla distinzione di essere stata un suo personaggio).



Con una dissolvenza di tipo cinematografico arriviamo all’aprile del 2007. Siamo nel salone stemmato della Italian Academy di Columbia University, e Philip Roth sta ricevendo il Grinzane-Masters Award. Vedo da vicino per la prima volta il grande romanziere: un uomo alto dall’aspetto un po’ sulfureo. La motivazione del premio è letta ad alta voce in italiano, e poi tradotta in inglese; e parla della sua opera con le tipiche eufemizzazioni della critica letteraria, descrivendo la sua costante, per non dire ossessiva, attenzione verso l’attività erotica come una visione che in realtà si rivolgerebbe al dramma universale della vita o qualcosa di simile. 



Quando infine Roth comprende, attraverso la traduzione, che cosa stanno dicendo di lui, ha un piccolo scatto ironico; si rivolge al pubblico roteando gli occhi (un po’ nello stile di Groucho Marx) ed esclama: “Ecco, quando uno dice di me delle cose così, non so che cosa gli farei!”. E ridiamo con un senso di sollievo, perché ci sentiamo liberi di accettare l’idea che l’esuberanza erotica senza filosofemi sia il punto di forza della narrazione di Roth; fin dal tempo del romanzo che sancì la sua fortuna letteraria: Il lamento di Portnoy (Portnoy’s Complaint) del 1969. Poi, dagli anni Sessanta a fino a dentro il terzo millennio, Roth ha scritto molti, e abili, romanzi. Ma quella rosseggiante atmosfera dei Sessanta resta per me (e non credo che sia soltanto un effetto generazionale) l’immagine più convincente della sua narrativa.



La quale peraltro non si riduce soltanto alla pastorale degli amori, e Roth non è scrittore superficiale: in lui si fa sempre più chiaro il tentativo di definire la situazione degli Stati Uniti in tutta la sua ampiezza, e il titolo del romanzo del 1997, Pastorale americana (American Pastoral), è sintomatico. E poi c’è la grande ombra che si proietta sul paesaggio spirituale dell’America, e che emerge soprattutto ne La macchia umana (The Human Stain) dell’anno duemila; un romanzo cupo, con un finale a sorpresa, in cui emerge il taglio che percorre l’America e la sua letteratura: la questione razziale. Ma “questione razziale” è un termine astratto e intellettualistico, e inoltre è un’etichetta normalmente intesa in senso limitativo, con riferimento esclusivo alla popolazione africano-americana. Non è questo il tema centrale nella narrativa di Philip Roth. E’ l’altra questione; quella che appare solo in filigrana e indirettamente, quella che spinge Roth a dire a un certo punto (come lo cita nel suo necrologio il diligente New York Times): “L’epiteto ebreo-americano non ha un senso per me. Se non sono un americano, non sono nulla”.

Ma naturalmente ciò non basta a chiarire il groviglio complesso della letteratura che molti continuano a chiamare ebreo-americana (Saul Bellow, Bernard Malamud, ecc.) con tutti i suoi addentellati, la sua dialettica, i suoi dibattiti, che sono in fondo analoghi a quelli concernenti altre culture e letterature cosiddette “con il trattino” (hyphenated) negli Stati Uniti; come per esempio la letteratura italiano-americana, che merita e richiede un discorso a parte.

A proposito di dialettica, basti pensare ai romanzi di colui che apparve come una sorta di rivale di Roth, il brillante John Updike; alla cui base sta una ben diversa immaginazione cultural-religiosa, per quanto laicizzata (Updike, fra l’altro, leggeva Kierkegaard). Per affrontare adeguatamente tutto questo intrico ci vorrebbe un nuovo D.H. Lawrence: quello che nella sua raccolta di saggi, Studi sulla letteratura americana classica del 1923, descrive i sogni e gli incubi, le esaltazioni e le tensioni della grande letteratura americana con un’eloquenza e un coraggio critico di cui si sente ancora la mancanza.

Quando, qualche tempo fa, i due romanzieri del momento — Don DeLillo e Paul Auster — lessero alcune loro pagine appena pubblicate di fronte a un pubblico vasto nella libreria Barnes & Noble di Union Square a Manhattan, non erano solo due stili diversi quelli che si ponevano in amichevole confronto; erano anche due diverse radici: le origini di DeLillo studente in una scuola di gesuiti, e quelle di Auster il cui solco è (con ovvie differenze di stile) il solco di Roth. Quella suggestiva lettura notturna fu un’altra occasione per ricordarci che i testi letterari vanno sempre letti non solo al diritto ma anche al rovescio, in filigrana.