Tutti i libri che Corrado Bagnoli ha pubblicato in questi anni sono tasselli di una ricerca di senso nei territori dell’umano; ma anche della parola — del come dire questa umanità, questa realtà — che costituisce per ogni poeta la vera sfida della propria opera. E il dire di Bagnoli è il manifestarsi di un dialogo con le cose e le persone capace di coglierne l’essenza buona, di abbracciarne il positivo anche quando ci sembra che la vita sia impossibile da vivere e il dolore insormontabile. Il colloquio che egli mette in atto nella sua poesia, è la causa della commozione che spesso si prova leggendo i suoi testi fatti di narrazioni palpitanti, di visi che prepotentemente emergono dalle pagine, di affetti, di dolorose constatazioni.



Ne è prova quest’ultimo libro, costruito in tre tempi, in cui Bagnoli ritorna a un aspetto più lirico della forma, dopo le narrazioni poetiche di Fuori i secondi e Casa di vetro, conservando il colore del dettato, che è fatto di compassione e di grazia, della capacità di fermarsi sulle cose guardandole e amandole. Sono tre i temi presenti, tre movimenti, li chiama Bagnoli, a sottolineare l’andamento musicale della composizione, in particolar modo evidente nel terzo movimento dal titolo Questa corsa di parole, il cui il testo, come rivela lo stesso poeta nella postfazione del libro, è stato composto ascoltando The Köln concert, di Keith Jarrett. E sono tre temi accomunati, anzi intrecciati e quasi inscindibili tra loro, dentro l’esperienza quotidiana: l’insegnamento e il lavoro educativo nella scuola media; il rapporto con i figli, visti nei passaggi della crescita; la parola e la riflessione sulla parola che deve dire del mondo senza tradirlo, rinominandolo per necessità e responsabilità.



Sono testi che emergono dalla visione delle cose del mondo, da un ricominciare dello sguardo, dopo che lo sguardo stesso è stato offuscato dall’insignificanza, dalla confusione del dire. Così, per esempio, nel primo movimento del libro, il paesaggio è un’Antartide maestosa, cuore bianco della terra: poesie viste sulla traccia delle immagini fotografiche di Lucia Simion; come un emergere del senso, un paesaggio di parole nuove, una nominazione di cose che si vedono per la prima volta.

Devo cominciare da qui, dalla lentezza dell’azzurro, dice Corrado Bagnoli a proposito di un paesaggio marino: la spiaggia carica di ombrelloni, di venditori ambulanti, di sguardi. Occorre ripulire, fare in modo che la parola diventi sincera e onesta per mostrare ciò che è celato, che spesso abbiamo celato nelle parole, forse per paura o per vergogna. La poesia si fa racconto del mondo, è prosa ritmica che cerca di catturarlo nelle varie manifestazioni di una quiete apparente. Il vento butta via le pagine, cancella l’indice, ma il poeta riscrive. È proprio questa riscrittura, questo ripartire dai brandelli a mettere la sordina alla poesia alta, a mettere noi di fronte alle cose con un’umiltà che prima non avevamo. La scrittura perde la sua corazza, si fa voce che accompagna le creature e con esse condivide una sorte di gloria e devastazione: anche la scrittura muore, ma prima ha vissuto nel dono e nel dolore di un breve contatto. La poesia di Corrado Bagnoli è abitata, insomma, da una forma di francescanesimo capace di accogliere ogni manifestazione dell’essere come necessità della resistenza: anche le cose possono raccontare di noi — a dirci niente e tutto — come se ci fosse un’altra voce a parlare, a dire del mistero che ci abita; riassunti e, forse, assolti.



Come se la Bellezza non c’importasse nemmeno più — sembra suggerirci il poeta tra le righe — se la forma dell’arte non riesce a vibrare come un’arpa eolica capace di cogliere le sfumature del sentimento, decapitando qualsiasi presunzione di ideologia artistica.

Mi capita di leggere tantissimi libri di poesia e di scriverne, soprattutto per passione. Eppure sono pochi i libri, in un contesto ormai altamente inflazionato, che sappiano porsi al lettore con una domanda di senso, una richiesta di riflessione. Come se l’opera ci chiedesse di portarla altrove, farla uscire dalle sue stesse pagine e consegnarla all’origine della lava e del ghiaccio che convivono in noi. Parlare di questi libri costituisce ormai un compito etico al quale non è possibile sottrarsi; una sorta di responsabilità a cui si è chiamati dalla parola necessaria che abita, umile e consapevole, dentro Il cielo di qua.

Ci si apre soltanto una scia
dentro la deriva del bianco,
dentro il disfarsi fluttuante,
il rumore secco della frattura,
degli scontri, dei baci, dell’urto.
Si richiude dietro di noi,
tutt’intorno, si stende ancora
davanti questo foglio spezzato,
parole, voci che si disperdono,
tremano, pungono e chissà
se invece potrebbero dircelo
il cielo, intero. O se invece
non è proprio così, solo così,
che adesso lo possono fare;
che adesso, anche noi, ci parliamo.
Con niente che si scrive davvero
negli occhi, che lasci nella carne
una strada, una mappa, una roba
che resta per dire casa, oltre l’acqua.

Il sole ha buttato giù le mani
e gli occhi, come un bambino
ha scavato via la neve intorno
e ne ha tirato fuori un fiore
nero e d’oro: chissà che bacio
il vento gli fischia addosso e l’odore
che gli lascia. Gli anni in fila
si sono mischiati, in righe, a blocchi
e a polvere di fuoco, sguardo scuro
di un’età che gli è rimasta dentro.
Intorno terra ancora, a manciate
piccole nel ghiaccio, parole lente
che si toccano per l’aria che le tocca,
che si passano un segreto o un nome
come in un teatro eterno, che si
dicono una cosa dura sotto il cielo.
Che intanto dà l’idea di leggere
e ascoltare, tenere lì, da qualche parte,
anche per noi, la voce e la pietà.

La certezza che ci sia, chissà dove,
chissà dopo cosa, chissà quando,
ma certo, un posto in cui ognuno
di noi ed ogni cosa siamo convocati,
voluti sempre. Tra la terra e il cielo,
che è il mondo fragile, il nostro,
c’è un’immagine grande, una casa,
l’oro e il blu. Ci sono strisce, foglie
di luce, noi, cuori alti e lunghi:
ascoltare le cose nel loro intimo
respiro, dentro il posto in cui cresce
la loro custodia e cura; accogliere
l’istante, la luce, l’unico orizzonte
in cui l’eterno accade. Sguardo.
E poi siamo solo dono, grazia
in mare aperto, roba buona
da mangiare per il cielo.

(Corrado Bagnoli, da Il cielo di qua, La vita felice, 2018)