E’ una parola araba che significa “incontro aperto, amichevole”: multaqa. Non poteva esserci definizione migliore per esprimere l’eredità storica e culturale dei popoli mediterranei, giunti fino ad oggi attraverso un lungo viaggio nel tempo e nello spazio fatto di scambi, incontri, trasmissione di eredità, anche scontri e guerre, ma nel quale i momenti di pace e di costruzione sono prevalsi sui conflitti. Multaqa è anche il nome che racchiude l’opera culturale iniziata 20 anni fa ad Agrigento, nel 1998, e che dopo essersi celebrata in varie città del Mediterraneo e non solo, quest’anno è tornata, con un convegno internazionale di tre giorni che si è chiuso il 27 maggio, nella città che vide nascere questa preziosa iniziativa. Il 1998 è lontano, non c’era stato l’attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle, la guerra malriuscita dell’occidente al terrorismo, in Afghanistan e in Iraq; la Siria era un paese in pace, il drammatico fenomeno migratorio non si era manifestato nelle forme imponenti e drammatiche cui assistiamo in questi ultimi anni; la Libia era saldamente sotto il controllo e l’autorità del colonnello Gheddafi. Un altro “mondo”, si dirà. Eppure, anche allora il Mediterraneo svolgeva il ruolo di ponte culturale che è chiamato ad essere anche oggi, crogiolo di civiltà millenarie pieno di indicazioni per il presente. 



E’ quello che ha ribadito ad Agrigento Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, che ha promosso e realizzato l’evento “Multaqa – Mediterraneo di civiltà e di pace”. Un convegno internazionale he ha visto la partecipazione e le relazioni di tre illustri esponenti delle religioni che hanno fatto la storia del Mare nostrum — cristianesimo, ebraismo e islam — ovvero il card. Giovanni Battista Re, vicedecano del collegio cardinalizio, il rabbino capo di Napoli Rav. Ariel Finzi e l’imam della moschea di Ethem Bej in Albania Elton Karaj. 



“La poesia, la letteratura, l’arte ma soprattutto il concetto di democrazia, la primazia delle leggi, e la religione – ha detto Emanuele, che è anche presidente del comitato scientifico della Multaqa – fanno parte di quel patrimonio assolutamente consacrato nei secoli che è diventato oramai parte integrante della civiltà mondiale”. Si tratta di rielaborare  senza sosta l’eredità ricevuta, per non farla inaridire, impedendo che le differenze diventino egoisticamente fattori di scontro, e favorendo invece, come non si stanca di ripetere papa Francesco, il cemento unificante per un dialogo in cui arricchire se stessi. E’ precisa l’analisi di Emanuele: “ritengo che una componente spirituale, così come essa si è manifestata e continua a manifestarsi nella nostra epoca, proveniente da quel Mediterraneo fecondo di idee e principi cui ho fatto cenno, sia l’esatta terapia per curare il fenomeno distorsivo della globalizzazione capitalista che tanti guasti sta arrecando”. La diagnosi contiene il compito: “credo che nessuna ‘palestra’, più di quella del Mediterraneo, possa mantenere viva la speranza della buona volontà tra gli uomini del concetto di pace”.



Proprio sul concetto di pace si è soffermato il rabbino Finzi, rilevando come il sostantivo “pace” (shalom) ha la stessa origine della parola shalem, che significa completo. Un monito a superare le divisioni, perché la pace è un bene per il cuore di tutti, a qualunque fede appartengano. Un concetto emerso anche dalle parole dell’imam di Tirana, Karaj, che ha ricordato come dal 1912 convivano pacificamente in Albania islamismo, cattolicesimo ed ortodossia. “Quel Dio che ci ha creato — ha detto infine il cardinale Re — non può essere motivo di contrasti fra le religioni: esse devono tutte cooperare per il benessere, il progresso, la pace e la cooperazione fra i popoli. Ogni credo ha le sue caratteristiche e, ovviamente, dobbiamo tutti essere fedeli alla nostra religione, ma allo stesso tempo è indispensabile avere fiducia e rispetto verso gli altri e salvaguardare la libertà altrui: questa è l’unica maniera per poter vivere insieme in armonia e serenità”. 

Ma il primato civilizzatore e unificatore del Mediterraneo non può essere solo analisi storica, memoria del passato. In tempo di incroci, sovrapposizioni, rimescolamenti continui, drammi di interi popoli, l’eredità deve — è l’auspicio — fornire a chi la interpreta e la vive un compito pubblico. Non c’è nulla di più “politico” del “mare interno”, è la convinzione di Emanuele, che con la sua Fondazione, grazie al no profit, ha promosso e realizzato progetti culturali, sociali e umanitari in molte sponde del Mediterraneo, dal restauro della Cattedrale di Sant’Agostino di Ippona ad Annaba in Algeria al progetto “ospedali aperti” a Damasco.

“In questo scenario — ha detto Emanuele nella sua relazione conclusiva — da anni ormai propongo il ruolo della Sicilia come la ‘Bruxelles’ degli Stati mediterranei”. Una proposta politica, nel senso però forte del termine, non partitico, dirompente: Emanuele ha auspicato “che, non tenendo conto dei vincoli e degli obblighi che ci impongono i nostri capi politici ed i loro burocrati, noi Stati mediterranei iniziamo finalmente a porre le basi di un percorso federativo che passi attraverso quel mondo cui appartengo, quel privato no-profit che si occupa di aiutare i meno fortunati, creando punti di riferimento nei Paesi (l’Albania, Israele) che potrebbero a buon diritto entrare a far parte del nuovo “vecchio mondo” che io sogno”.

La strada, per chi vuole raccogliere la sfida, è tracciata.