Un uomo dall’anima guasta e, soprattutto, solo. Questo è il Joaquin protagonista dell’Ultima leggenda di Caino (Edizioni Medusa), lo splendido racconto di Miguel de Unamuno riproposto in Italia dopo lunga assenza.
Unamuno plasma come argilla la storia di Caino e Abele, mischiando i loro lineamenti e interrogandosi sulle zone lasciate in ombra dalla scarna e così potente narrazione biblica. Lo scrittore spagnolo indaga il tarlo che spolpò le esistenze dei due fratelli. I fratelli divisi: un tarlo che ha interrogato classici vicini e lontani, da Eteocle e Polinice fino al partigiano Kyra e al suo fratello maggiore, ufficiale fascista, raccontati da Beppe Fenoglio nell’epopea del Partigiano Johnny.
Lo sguardo di Unamuno è nero e lucente. Vuole comprendere il male e la natura dell’invidia. Ecco allora rinascere il dramma dei due amici fraterni, Abele Sanchez e Joaquin Monegro, in un’ipotetica Spagna di primo Novecento.
Abele Sanchez è l'”eletto”. Il primo della classe, distante quanto antipatico nella sua perfezione, lontano dal pastore in qualche modo zuccheroso del nostro immaginario. Abele è un pittore di talento. Crea personaggi così intensi da sembrare veri. Abele è bello, ma non buono. Soffia vita nei quadri, ma non ha specchi per esaminare la propria anima. È un narciso. Gli altri uomini per lui sono comparse sbiadite. Le donne, poi, trofei da collezione. Almeno fino all’incontro con la bellissima e sfuggente Elena, che lo porterà a un tragico destino.
Prendendo spunto da Omero, Unamuno sceglie proprio Elena come spartiacque: è lei la bellezza che traccia il solco invalicabile tra Abele e Joaquin, due amici a prima vista inseparabili.
In apertura, Unamuno dedica poche pennellate per Abele. In realtà, il suo zoom è per Joaquin, per la sua fosca passione dispiegata su un atlante di sentimenti più ampio rispetto a quello dell’amico. Se per Abele Unamuno farà ricorso a una tavolozza di colori essenziali e forti, per Joaquin impiegherà una variegata scala di grigi che vireranno sempre più decisamente al nero.
A dispetto di Abele, Joaquin fatica a trasformare in realtà i propri desideri. C’è un sogno però da cui non abiura: Elena, la donna di cui è invaghito, la perfetta seduttrice, “pantera” e “pavone” allo stesso tempo. E così confida all’amico-nemico: “Ti dico che quella donna mi fa impazzire”.
Così la fatale confidenza ad Abele: “Ma se tu vedessi com’è bella! E più si fa fredda e sdegnosa, più è bella. Ci sono dei momenti in cui non so se l’amo di più o se la detesto! Vuoi che te la presenti?”.
Da questo momento, scatta la tagliola dei sentimenti. Abele incontrerà Elena e la farà sua, senza difficoltà, senza scrupolo per Joaquin e, soprattutto, senza particolare trasporto. Un altro trofeo da esibire. Per Joaquin, invece, sarà l’inizio del gorgo. Un nuovo veleno lentamente intossicherà ogni istante della sua vita, rendendo sempre più difficile la redenzione.
Il racconto di Unamuno ha la forza di un dramma shakespeariano. Il volto di Joaquin diventa sempre più quello di Caino. Il cappio che lo strangola ricorda il Riccardo III di Shakespeare (quello spietato di Al Pacino in Looking for Richard, quello febbrile e morboso di Carmelo Bene).
Che cosa resta al termine di questo viaggio nelle tenebre? Il senso di una vita che avrebbe potuto virare e che è rimasta impigliata nelle proprie spirali. Ma, in fondo, è anche la lezione catartica del teatro greco: toccare il buio per avere luce e purificazione. È il salvacondotto della grande letteratura.
A lettura conclusa si prova una grande nostalgia del bene. E sono di conforto le riflessioni di Henry Nouwen dedicate al padre della parabola del Figliol prodigo. Nouwen ebbe la vita trasformata dopo aver lungamente contemplato l’omonimo quadro di Rembrandt custodito all’Ermitage. E nell’Abbraccio benedicente ha dedicato pagine meravigliose a quel padre con gli occhi bruciati dall’attesa di ritrovare il figlio perduto: è il Padre che ognuno di noi vorrebbe incontrare al termine del proprio viaggio.