Si può insegnare a tradurre poesia? Non c’è forse operazione culturale più complessa e allo stesso tempo più liquida e soggetta a variabili, dato che poggia su precarie, mobilissime fondamenta. Con La parola braccata (Il Mulino, 2018) Valerio Magrelli ci dà un campionario, come recita il sottotitolo, di Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico. Il lavoro di Magrelli dovrebbe stare idealmente sullo scaffale accanto al Manuale di poesia di Giuseppe Conte (Guanda, 1995), e al sempre meritorio Manuale di scrittura non creativa (BUR 2010) di Federico Roncoroni. 



Valerio Magrelli, classe 1957, ordinario di letteratura francese a Cassino, è non solo uno dei migliori francesisti italiani, ma è anche poeta, saggista e traduttore, insignito nel 1996 del Premio nazionale per la traduzione. Dunque, chi meglio di lui può parlare su questo tema? Da qualche anno, infatti, siamo sbarcati in un nuovo continente, per quanto attiene alla traduzione; anzi, forse, meglio sarebbe dire proprio in un nuovo mondo: perché oggi gli studi sulla pratica traduttiva sono stati innervati dal ricchissimo portato delle scienze cognitive. 



A fine anni Ottanta risalgono i primi studi sperimentali che esploravano i processi psicolinguistici alla base dell’operazione traduttoria: l’interesse cioè si è focalizzato sul cercare di capire che cosa mai accada nella testa del traduttore durante questa sofisticatissima operazione mentale. Oltre a J. Holmes, che coniò nel 1972 la felice formula di translations studies, vanno ricordati J.M. Lotman, ispiratore della scuola di Tel Aviv, e il passaggio dalla prospettiva prescrittiva (“il traduttore deve fare questo e questo”) a quella descrittiva (in cui la teoria non è separata dalla pratica). Del resto, il fortunato saggio di George Steiner, Dopo Babele (1975, tradotto in italiano nel 2004), già si domandava: “Come si sposta la mente umana da una lingua all’altra?”



Dunque tradurre non è più solo questione di gusto, finezza, ampiezza di letture, o meglio: non è mai stato solo questo. Tradurre è téchne, alla greca, o ars, alla latina, pratica, tecnica, innervata da prassi poetica: non per nulla la grande stagione della traduzione nasce con l’ellenismo e con la letteratura latina, la sua figlia più matura, e continua nella letteratura del medioevo europeo, che vive di traduzioni e volgarizzamenti, e poi nelle lingue moderne. Magrelli, che padroneggia a perfezione la cassetta degli attrezzi del traduttore e insieme del poeta, così, ci mostra nei fatti alcuni Problemi, dalle Dimenticanze agli Anagrammi. Poi, nella Parte Seconda: Poemi si entra nel vivo dell’officina del poeta-traduttore con Esercizi di capo: tradurre un acrostico prima, ed Esercizi di coda: tradurre una rima poi. Nel primo caso, ci viene ricordata la lunga vita dell’acrostico, forse la più peregrina e imprendibile fra le prassi poetiche: inventato dai babilonesi, introdotto in greco da Epicarmo, praticato a Roma per primo da Ennio, l’acrostico fiorisce con la poesia cristiana, trionfa nel medioevo, con Dante che ricorre addirittura all’acrostrofe (acrostici che legano le lettere iniziali di strofa, come in Purgatorio XII). L’acrostico trionfa in Francia fra XV e XVI secolo, e talora si presta a maliziosi scherzi, come quello di Gween Harwood, poetessa australiana che, nel 1961, invano propose i suoi versi a una rivista: irritata, spedì due sonetti con uno pseudonimo maschile. Essi furono subito pubblicati, ma i redattori non si resero conto che il secondo, Abelard to Eloisa, conteneva un acrostico: fuck all editors. E dopo averci calamitati col divertente aneddoto, Magrelli ci guida alla traduzione dell’acrostico inglese, con una serie di consigli molto pratici. Dall’acrostico all’indovinello numerico, per arrivare il calligramma, il passo è breve, sino alla prassi della traduzione più concreta e fruibile: i sottotitoli. 

Insomma, tradurre è de-cidere, cioè, non solo scegliere, ma anche, etimologicamente, “tagliare via”, in quanto qualcosa si perde sempre nella traduzione, e la perdita deve essere calcolata e consapevole: in fondo, ogni traduttore è un Ercole, sempre al bivio — il sentiero diviso dalla caratteristica forma a Y — come nell’apologo di Prodico di Ceo. La decisione fra Bene e Male, associata per tradizione all’aneddoto, diventa ora simbolo dell’atto del traduttore, in quanto spiccatamente caricato di “fatiche” per la mole dei problemi affrontati, e perché ben rappresenta il suo dover de-cidere.