A differenza del nostro primo viaggio a Praga in marzo, questa volta, con la buona stagione, in luglio, il viaggio sarebbe stato fatto in macchina. La mia R4 di seconda mano e la Mini di Marina Loffi, che si era unita al gruppo. Questa la sua memoria:

“Partimmo con due macchine: Walter Ottolenghi, Rosalba Mozzati, Massimo Guidetti, Luigi Patrini, Romana Romano e Annamaria Giannini.



Alla frontiera fra Austria e Cecoslovacchia un evento funesto: un soldatino di leva manovrando maldestramente il pilone di cemento che allora sbarrava il confine distrusse una portiera dell’auto di Walter. Per fortuna eravamo tutti sbarcati. Sosta infinita per fare le pratiche di rimborso (fortunosamente andato a buon fine due anni dopo l’invasione russa di agosto) e arrivo all’appuntamento fissato nella piazza del Týn con enorme ritardo.



Era sera inoltrata ma la piazza rigurgitava di gente, soprattutto giovani, e il suo pavimento era ricoperto di scritte in gesso inneggianti a Svoboda, presidente della repubblica da poco eletto e Dubcek, segretario del Partito comunista cecoslovacco, simbolicamente usati per manifestare la presa di distanza dai sovietici.

Mentre entravamo nella chiesa del Týn, gremita nonostante l’ora per un concerto, un coro stava cantando O vos omnes di Tomás Luis de Victoria, un mottetto che amavo moltissimo e che anch’io cantavo con il coro di Gs. Mi parve un abbraccio di benvenuto.

Dopo esserci individuati a vicenda non so come, venivamo ospitati in casermoni all’estrema periferia della città e la mattina dopo, su impulso di Massimo, sempre spinto dalla volontà di capire, come avrei più tardi verificato, visitammo la redazione di Mlada Fronta, la rivista organo del Partito comunista giovanile che però sosteneva allora le ragioni della Primavera.



Poi l’incontro con i Kaplan, Jirí e Maria, all’epoca poco più che quarantenni, che avevano 9 figli e abitavano una piccola porzione di una villa, se ben rammento appartenuta un tempo alla famiglia di Maria. Pochissime stanze ma una sala bellissima, accogliente, con una grande stufa di maiolica e dove la maggior parte dei figli alla sera dormiva, stesi sul pavimento in sacchi a pelo (per lasciare i letti agli ospiti).

In quella e altre occasioni ci rendemmo conto che si trattava di una casa-approdo: lì convergevano le più diverse persone, per attitudine, estrazione, provenienza.

Intellettuali, operai, studenti, anche il futuro presidente Václav Havel. Tutti ospitati con calore e … musica: anni dopo in una lettera Jirí, descrivendo il corteo di nozze di una sua figlia, mi raccontò che la sposa era stata accompagnata alla chiesa da un’orchestra ‘di strada’; lui, tutti i figli e molti amici suonavano infatti uno strumento.

Da casa Kaplan la partenza per Šumava nella foresta boema, dove Pavel (Sepekovský, ndr) aveva una grande baita senza acqua né elettricità. Con Jirí sarebbe rimasto per l’intera vacanza insieme a noi e a una decina di giovani cecoslovacchi provenienti da vari luoghi. Noi ragazzi dormivamo nel fienile. Ricordo particolarmente Pavel Novak, Vašek Renc, figlio di un drammaturgo messo in prigione dal regime, Petr Kryl, Honza…, Jana… che aveva capelli lunghissimi oro veneziano e alla mattina quando ci tiravamo su dal fieno sembrava Lorelei.

Le giornate trascorrevano semplicemente fra passeggiate, giochi, preghiera, discussioni e racconto delle reciproche esperienze e problemi, in tutte le lingue e le forme possibili, sotto la guida lieve dei due adulti. Ricevemmo anche la visita di padre Reinsberg. Era fortissimo il desiderio di comunicare e comunicare con verità dentro le differenze di temperamento e situazione umana. Ne trattengo ancora oggi una immagine intensa. Parecchio tempo dopo, durante una vacanza a Praga in tempi di repressione, incontrai Jirí al ristorante dell’Opera — un luogo da lui ritenuto sicuro — con mio cognato Guido che aveva fatto parte del Collettivo di architettura ed era su posizioni comuniste. I due si parlavano in francese (stentato da parte di mio cognato) con la stessa intensità e cordialità (della vacanza) di Šumava, con la volontà di incontrarsi sul serio nonostante le difficoltà della lingua. Credo che sia un’intenzione verso l’altro di questo tipo quella in grado di suscitare l’interlocutore e ricordo la pazienza e la magnanimità affettuosa di Jirí nell’ascoltarlo e nel rispondergli, come pure la lezione costituita da quel dialogo fra loro.

Vašek Renc, che suonava benissimo la chitarra e componeva, scrisse in quei giorni una canzone, Jdu cestou necestou (“Vado ovunque, per strade e sentieri”) che parlava di strada, di amore e solitudine, di rovi; una sorta di sigillo di quel periodo passato insieme.

Non so se il tempo di Šumava sia stato fruttuoso per tutti i partecipanti, anche per le sventure che si sono abbattute sulle loro vite a partire dall’agosto del ’68, penso di sì, forse in modi diversi, comunque tra noi tutti — italiani e non — produsse in pochi giorni un senso di familiarità e per me è stato un’occasione grande di crescita”.

Tutto questo avveniva in luglio. Nel mese di agosto fummo noi ad ospitare in Italia alcuni di loro. Il 21 di quel mese le forze armate sovietiche e del patto di Varsavia invadevano il territorio cecoslovacco, ponendo fine alla Primavera di Praga. Fu un’esperienza sconvolgente per noi e per i nostri amici. Dopo cinquant’anni ne serbano ancora il ricordo, come ci hanno scritto recentemente:

“Grazie per i saluti dei nostri amici. Una riflessione sul nostro soggiorno in Italia ci mette un po’ in difficoltà. Naturalmente ci fa piacere che i nostri amici italiani non ci abbiano dimenticati dopo tutti questi anni…

Se guardiamo indietro non possiamo negare che il nostro viaggio in Italia nell’anno 1968 ha avuto per noi un grande significato e ci ha influenzato molto…

Però il soggiorno in Italia è capitato nel periodo in cui sono giunti da noi i carri armati russi. Chi ci ha ospitato ha vissuto con noi molto intensamente quei momenti — per di più è successo nella notte in cui noi ci siamo recati da Padre Pio a San Giovanni Rotondo. I carri armati hanno alla fine influenzato le nostre vite più del soggiorno in Italia, il che è comprensibile.

Due di noi sono rimasti in Italia e hanno scelto la via del servizio spirituale, un altro ha fatto la stessa scelta in Cecoslovacchia. Anche questo ci ha influenzato. Gli altri hanno avuto assicurata una vita grigia, illuminata dai rapporti personali, da sporadici avvenimenti culturali e certamente dalla vita di fede”.

O ancora, ricorda Ružena:

“Venne la Primavera di Praga che fece cadere molte delle nostre paure e soprattutto ci fece superare il senso di diffidenza e di sospetto che fino a quel momento ci aveva impedito di fidarci l’uno dell’altro. Gli studenti di diverse facoltà che frequentavano la stessa chiesa — la centralissima chiesa della Madonna del Týn — cominciarono allora a salutarsi, a parlare liberamente di sé ai compagni … poi a Pasqua venne dall’Italia un gruppo di studenti un po’ speciali, che io presentai ai miei amici e a persone importanti di Praga, persino l’arcivescovo František Tomášek. Da questi incontri nacque un bel progetto: un gruppo di studenti cechi furono invitati in Italia alle vacanze di vari gruppi perché facessero conoscere oltrecortina la loro esperienza di fede vissuta sotto un regime totalitario ateo. Potevamo partire solo singolarmente, o al massimo a due a due, muniti di un invito personale da parte di italiani: i nostri amici italiani generosamente ci ospitavano pagando tutte le nostre spese, anche quelle di viaggio. Fu così che potemmo recarci dalle Dolomiti al campeggio di Peschici e a Catania concludendo il nostro viaggio a Roma. Partimmo da Praga all’inizio dell’agosto del 1968 e a Peschici ci raggiunse la notizia dell’occupazione il 21 agosto della Cecoslovacchia da parte dei carri armati russi: eravamo con don Francesco Ricci. Ricordo quanto ci aiutò a seguire i telegiornali italiani e, contemporaneamente, le trasmittenti libere cecoslovacche che completavano le informazioni italiane. In quei momenti per noi tanto tristi fu il suo continuo incoraggiamento a non perdere la speranza nei momenti difficili che ci diede il sostegno di cui avevamo bisogno. ‘Don Chilometro’ (soprannominato così per i suoi due metri di statura, ndr) è diventato per noi un vero padre. Al momento di rientrare in patria qualcuno decise di rimanere a Roma per diventare prete e una nostra amica, dopo anni di ricerca, decise di entrare in clausura in un monastero di suore Benedettine. Uno di noi, poi, anche se con più fatica, è diventato sacerdote in Cecoslovacchia e oggi è vescovo ausiliare di Praga. Possiamo affermare dunque che la grande fede, la generosità e l’esempio di don Francesco Ricci, il prete del sorriso e della massima disponibilità, ha dato davvero meravigliosi frutti”.

(2 – continua)