Le magagne della politica ci affliggono oggi più che mai. È diventato chiaro che elaborare il quadro delle norme giuridiche ed esercitare funzioni di guida non richiede solo competenze e abilità di gestione (il che già non sarebbe poco). La delicatezza del compito scaturisce dal fatto che stare ai vertici della società non può ridursi a mera tecnica per la conquista e il mantenimento del potere. Quando questo succede, la politica si sfigura e impoverisce, perdendo di vista i fini che a parole proclama di voler perseguire e trasformandosi nella caricatura deplorevole di se stessa. Perciò è saggio restare fermi sull’idea che il governo della cosa pubblica non può alimentarsi da sé: deve essere “regolato”, incanalato dentro gli argini di norme e valori capaci di imporsi come il suo asse portante, riconoscibili da tutti come l’indirizzo ideale verso cui tendere. La politica, se vuole essere buona, deve restare agganciata ai suoi “fondamenti”. E prima ancora, deve trovare il modo di darseli.
Come ciò possa ragionevolmente avvenire, nella società complessa dell’Occidente moderno — il fatto che questo sia un bisogno irrinunciabile con cui fare i conti nell’orizzonte problematico del nostro presente — è una questione che è stata da sempre al centro della riflessione sui rapporti fra fede cristiana e realtà del mondo portata avanti da Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. La sfida resta attualissima. E molto bene ha fatto l’editore Cantagalli a dedicarvi il secondo volume della sua preziosa collana di testi selezionati del nostro papa emerito (Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio, con prefazione di Sua Santità papa Francesco, Siena 2018).
Lo snodo metodologico preliminare da cui muove la proposta di Ratzinger ha la nettezza di una presa d’atto indiscutibile: il fondamento di una buona politica, favorevole all’incremento del bene autentico della persona, non può essere esposto alla sanzione della forza brutale dei numeri. Anche la più moderna democrazia centrata sulla tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo non può restare prigioniera del dispotismo autoreferenziale della maggioranza. La volontà collettiva può essere sviata, alterata dalla pressione di centri di influenza autoritari e inglobanti, viene deformata abusivamente nei suoi orientamenti: è la tragica lezione che si ripete costantemente nella storia, dai tempi antichi fino alle aberrazioni dei totalitarismi del pieno Novecento.
Proprio lo Stato di diritto nella sua forma liberale più avanzata, insiste Ratzinger, se vuole restare fedele alla sua più nobile vocazione, deve dotarsi di meccanismi adeguati per mettere in dialogo l’emergere del sentimento collettivo, filtrato dai canali delle deleghe rappresentative, con l’accesso all’ordine del diritto e dei valori che sono più profondi e vengono prima delle alchimie ideologico-partitiche forgiate dalle élite della società civile. Il processo di elaborazione delle decisioni, che porta a fissare i quadri etico-normativi di fondo della vita della comunità sociale, non dovrebbe mai eludere la necessità di strutturarsi restando sempre all’ombra della giustizia autentica e della verità. Perché solo così la politica può mantenersi capace di distinguere il bene dal male. Il bene e il vero consistono di per sé. Non derivano dalle oscillazioni del consenso sociale e scavalcano la lettera delle leggi che li condensano in provvisori schemi formali: sono radicati in un ordine che ultimamente è già dato, in quanto proiezione del logos del Dio creatore, di fronte al quale si pone l’oggettiva realtà di un essere umano che non si fa da sé, ma esiste e si compie come destino nel ritrovarsi modellato “a Sua immagine e somiglianza”. La voce della coscienza è la finestra spalancata sulla totalità, il varco attraverso il quale il soggetto umano può arrivare a intravedere questo fondo della sua condizione originaria e, nella misura in cui ne diventa consapevole, ricavarne i suggerimenti per tentare di tradurlo nell’esistenza dei singoli, così come delle collettività in cui essi sono inseriti.
Ma come avviene questo riconoscimento essenziale dei valori-cardine, che devono stare in cima alla catena delle scelte sulla fisionomia da dare all’insieme della realtà sociale? Qui si innesta il nucleo più genialmente moderno della teologia “politica” di Ratzinger. L’opzione che emerge come linea dominante è a favore di un pieno realismo. Il quadro dei valori a cui la ragione chiede di ispirarsi attraverso la configurazione delle leggi e nell’esercizio dell’azione di governo non può essere dedotto meccanicamente da un modello ideologico applicato dall’esterno sul mondo concreto dell’esperienza umana, che pretenda di comprenderla in ogni dettaglio, prima ancora di addentrarsi nei suoi meccanismi interni di articolazione. In passato, ammette Ratzinger, si è dilatata eccessivamente l’ambizione di circoscrivere la fisionomia della natura che sorregge la realtà del mondo come un dato precostituito da salvaguardare portandolo al suo compimento. E non è nemmeno giusto pensare alla natura come un “ordine puramente razionale, […] chiuso in se stesso e autosufficiente” (p. 13, in risposta al volume di Marcello Pera su Diritti umani e cristianesimo), dentro il quale possano imporsi come regola vincolante per tutti convinzioni e norme valide per la loro autorevolezza intrinseca, a prescindere dalle passioni e dalle lotte degli attori umani chiamati a farsene interpreti. La torbida confusione su ciò che prima poteva essere ovvio (cosa sia la vita, cosa definisca l’umano) e il disorientamento morale diffuso in ogni piega della pubblica opinione mostrano che bisogna abbandonare ogni ottimismo ingenuo. “La razionalità metafisica” — ammonisce deciso l’ultimo Ratzinger — non è affatto “immediatamente evidente”. E “derivare un dovere dall’essere è ragionevole solo se Qualcuno ha depositato un dovere nell’essere”.
Ma proprio questo diventa controverso nello scenario prodotto dalla marginalizzazione dell’elemento religioso che si è fatta strada con la secolarizzazione della modernità occidentale più evoluta. Esisteva in passato un patrimonio di valori condivisi, riconosciuti dalla coscienza collettiva come il prolungamento obbligato della condizione naturale dell’uomo creato. Nei suoi scritti Ratzinger ne offre una sommaria documentazione storica, che ha il grande pregio di dilatarsi fino alle fasi più mature della cristianità preilluminista, senza fermarsi ai momenti della sua incubazione remota. Ma oggi questa mappa comune di orientamento, “scritta nel cuore” di ogni uomo, si è “dissolta”, è andata in gran parte “distrutta”, e va faticosamente ricompaginata mettendo insieme frammento dopo frammento. Il vuoto che si è creato con il crollo delle evidenze intrecciate al senso della dipendenza dal divino non è solo la rovina di una civiltà sbriciolata: è anche un’opportunità nuova, l’arena in cui la soggettività cristiana è sollecitata a ripensare il suo contenuto e la proposta della sua identità, entrando in contatto e confrontandosi dialetticamente con tutti gli altri soggetti, i sistemi di pensiero e le correnti di opinione che si espandono nella società aperta del mondo plurale.
In questo contesto, la chiave di volta del “processo di formazione” del diritto che guida l’azione politica non può essere la pretesa di costringere la comunità umana dentro gli schemi di un diktat costruito sui codici di una tradizione immobilizzata. Non può più avere ragione di esistere il progetto di un ordine giuridico, di uno Stato o di un “mondo costituito cristianamente”, e il “modello teocratico” va ormai lasciato decisamente alle spalle come l’errore di una stagione che si è chiusa da secoli (p. 62 e altrove).
Opporsi al relativismo che inquina la dignità e i valori fondamentali della vita è ben altra cosa che ostinarsi a invadere spazi altrui e cancellare la linea di separazione tornata prepotentemente a galla tra ruoli del governo temporale e orbita della vita ecclesiale. Bisogna accettare fino in fondo di collocarsi nell’orizzonte della tensione bipolare tra fede-verità-ragione, alleate tra loro, e ordine del mondo presidiato dalle istituzioni di potere. Partendo da qui, dobbiamo avere il coraggio di ripensare a un nuovo innesto del principio di vita nuova del cristiano dentro un universo che non può ritornare al passato di qualunque forma di cristianità mondanizzata, dove si eclissa il senso della differenza tra l’ordine del cielo e quello della terra, la Città di Dio si sovrappone alla civitas umana, lasciandosene fagocitare, e il sacro si degrada a supporto dei legami di dominio tra gli uomini.
Se la fede, al contrario, riconquista il proprium della sua forza originale, reimpara a porsi come baluardo contro ogni involuzione degenerativa della legge umana e del potere arbitrario di Cesare. Rimettendosi in sintonia con il Fine ultimo che contesta ogni mito di felicità autocostruita e ogni terrestre “assolutismo idolatrico”, anche di matrice religiosa integralista, la comunione cristiana risale alla sorgente del suo essere: non la sovrana di un mondo da imbrigliare in un regime di monopolio, ma il soggetto creatore di una novità irriducibile che partecipa, con tutte le altre forze concorrenti, al compito di generare uomini in grado di misurarsi con la gestione del progresso moderno.