In un dialogo fra la star psicoanalitica Massimo Recalcati e il teologo Pierangelo Sequeri, apparso di recente nella rivista Vita e pensiero e ottimisticamente intitolato “Custodire l’invisibile: psicoanalisi e teologia alleate”, emergeva un comune nemico di questa alleanza, cioè lo “scientismo”, e una comune speranza: quella di trovare luoghi dove “l’incalcolabile è custodito”; luoghi che venivano identificati nella filosofia, la teologia e la psicoanalisi (ma a questi luoghi, altri dovrebbero essere aggiunti: primo fra tutti, la poesia). Certo, quest’alleanza sarebbe, come tutte le alleanze di ricerca, auspicabile; né mancano testimonianze incoraggianti in tale senso: per esempio la monumentale e dotta tesi dottorale — che beneficerebbe di qualche snellimento — di Rossano Gaboardi, “Un Dio a parte”. Che altro? Jacques Lacan e la teologia. Ma non sembra che siamo ancora in grado di proclamare tale alleanza; non prima, comunque, di aver riconosciuto il rapporto di forte tensione che la psicoanalisi ancora intrattiene rispetto non soltanto alla religione in particolare, ma anche alla spiritualità in generale.



Due recenti e interessanti libri aiutano a capire quali siano le difficoltà dell’auspicata alleanza: la raccolta di saggi concisamente intitolata Noia e attentamente curata da Pietro Pascarelli (Edizioni Grenelle, Potenza 2017), e  il libro intelligentemente vivace di Sergio Benvenuto, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (Edizioni Orthotes, Napoli-Salerno 2017). Un bilancio “sportivo” di Noia potrebbe essere: filosofia batte psicoanalisi due a uno; perché leggendolo si verifica quanto sia antico il topos della noia, e quanto sia frequentato nel pensiero “occidentale”, da Pascal a  Schopenhauer a Leopardi a Heidegger a Walter Benjamin alla saggistica contemporanea. I due ultimi nominati sono un po’ gli eroi del libro, grazie soprattutto al saggio di Bruno Moroncini, che tenta di abbracciare in uno sguardo unitario questi due improbabili “compagni di letto”, per dirla all’inglese (e il grande assente, come al solito purtroppo, è Kierkegaard; senza il quale, fra l’altro, è impossibile veramente comprendere Heidegger). E allora, Freud? Egli è il grande descrittore delle peripezie dell’amore.



Ma le accurate analisi di Benvenuto aiutano a vedere, per contrasto, alcuni non-detti nel discorso di Freud. Dove il non-detto più importante è la rimozione (per usare il termine freudistico) della maggiore “teoria” dell’amore elaborata in Occidente: quella platonico-ebraico-cristiana (che beninteso non è una teoria scientifica; d’altra parte è ormai chiaro che nemmeno la teoria freudiana è strettamente scientifica). In particolare, Freud sembra a volte arrampicarsi sugli specchi per evitare il confronto con il grande tema, ebraico-cristiano prima ancora che romantico, dell’Amore più forte della Morte, il groviglio che Richard Wagner aveva già “spiegato” (o meglio, dispiegato) senza tanti filosofemi mettendolo in scena, soprattutto nel Parsifal e in Tristan und Isolde. I filosofemi su Wagner, d’altra parte, li aveva già forniti Friedrich Nietzsche; oltretutto con il suo  colpo di scena veramente operistico del passaggio dall’esaltazione alla condanna del grande musicista (contagio wagneriano in Nietzsche, o sintomo che Freud avrebbe potuto analizzare come momento isterico di Nietzsche?).  



Tutto ciò è connesso anche all’impasse del narcisismo. Freud è brillante nell’analizzare il narcisismo come una delle fondamentali strategie di vita nel soggetto umano, adottandolo dunque come terminus technicus, descrittivo piuttosto che prescrittivo; ma non riesce a evitare l’attrito con l’altro concetto: il narcisismo come designazione di una debolezza di carattere morale. Infine, il paradosso della sublimazione. Il concetto di sublimazione in Freud implica un movimento dal basso verso l’alto. Ma qui, che cosa manca? Manca il sublime, e non mi riferisco al senso estetico del termine, bensì a quel sublime di cui parlano (quasi) tutte le religioni e le esperienze di spiritualità. Il senso del sublime, così come lo avverte anche l’uomo o donna della strada senza bisogno di cure analitiche, è più cruciale che il lavorio della sublimazione raffinatamente analizzato dalla psicoanalisi.

Si può ipotizzare, allora, che quella di Freud non sia tanto una teoria della sublimazione quanto una teoria della de-sublimazione.

L’articolo è un estratto dall’intervento alla tavola rotonda “Unità/Pluralità dell’Io: Il fascino discreto della psicoanalisi” tenuta il 14 giugno 2018 a cura del Centro Studi Sara Valesio nella Biblioteca Mischiati di San Colombano a Bologna.