Non c’è bisogno di scomodare i poeti per parlare di un’esperienza comune nella vita dell’uomo, quella di subire un tradimento. Però la parola scritta illumina sovente ciò che si prova, costringe a percepire le componenti delle proprie reazioni, non di rado conforta e induce se non al perdono, almeno a una sorta di prudente distacco.
Tralascio la pagina del tradimento di Giuda: dell’abisso del cuore umano che acconsente a Satana e del perdono di Gesù è meglio tacere. Ma il salmo 54 di Davide aveva cantato qualcosa di simile secoli prima:
Se mi avesse insultato un nemico,
l’avrei sopportato;
se fosse insorto contro di me un avversario,
da lui mi sarei nascosto.
Ma sei tu, mio compagno,
mio amico e confidente:
ci legava una dolce amicizia,
verso la casa di Dio camminavamo in festa.
Nell’ambito non della parola di Dio, che ben conosce la sua creatura, ma nella produzione poetica latina, se si eccettuano le pagine di Lucrezio, Catullo è l’autore che più scrisse del tradimento compiuto da Lesbia nella loro tormentata storia d’amore, tra vita vissuta e letteratura non ben decifrabile. In molti dei suoi carmi si trovano i sentimenti dell’amante deluso: l’invettiva, il rimpianto, l’accusa, la sferzante ironia che nasconde la passione non ancora domata. Nel carme 76 il poeta parla con se stesso e invoca gli dei per essere liberato dal suo male. Egli sa, come ogni uomo consapevole, che non può farcela a deporre un lungo amore e chiede aiuto.
Se il ricordo del bene compiuto in passato dà piacere al pensiero di essere stati giusti,
di non avere mai tradito e offeso il nome divino per ingannare gli uomini,
rimangono pronte per te a lungo molte gioie, o Catullo, per questo ingrato amore.
Infatti tutte le cose che di bene gli uomini possono dire o fare, queste sono state dette e fatte da te.
E tutte sono andate perdute, affidate ad un animo ingrato.
E dunque perché dovresti tormentarti ancora?
Perché invece non ti fai forza nell’animo e non ti togli da questa situazione
e non smetti di essere infelice, se gli dei sono contrari?
È difficile togliersi dalla mente all’improvviso un lungo amore.
È difficile, ma fallo in qualunque modo.
Questa è l’unica salvezza, devi vincere questa battaglia;
fallo, sia che sia impossibile, sia che sia possibile.
O dèi, se è una vostra prerogativa avere pietà, o se a qualcuno mai
avete già portato l’estremo aiuto proprio nel momento della morte,
volgete lo sguardo verso di me infelice e, se ho condotto con purezza la vita,
strappatemi questa peste rovinosa
che, insinuandosi come un torpore nella profondità delle membra,
mi ha tolto dal cuore ogni gioia.
Non chiedo che lei contraccambi il mio amore o, cosa impossibile, che voglia essere pura;
desidero star bene io, e togliermi di dosso questo terribile morbo.
O dèi, concedetemi questo in cambio della mia fede.
Ci sarebbero molte annotazioni da fare, ma forse è meglio lasciare al lettore l’impressione complessiva della delusione di un uomo che combatte un’impari battaglia con il suo cuore, che protesta la propria giustizia, che sente il peso di ciò che ha perduto e che chiede di essere alleviato dal peso di una malattia che gli toglie ogni forza.
Il terzo testo è il noto passaggio di Dante che incontra il conte Ugolino mentre rode con ira il cervello dell’arcivescovo Ruggieri. Qui parla il tradito, non il traditore. L’esordio è una nota citazione di Virgilio, con una variante che tutti i commentatori hanno notato:
“Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ‘l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli”.
Disperato, non solo “infandum”, indicibile come nel racconto della fine di Troia fatta da Enea a Didone. Disperato, perché Ugolino ricorda la fine dei suoi figli e la sua, lasciati morire di fame nella torre dei Gualandi a Pisa.
Disperato perché Ugolino non riconosce come vera la voce del suo tradimento, incolpa l’altro traditore e la croce a cui la città aveva condannato giovani innocenti.
Disperato perché la pena, l’incontro, le parole sono immersi nel ghiaccio. Qui c’è solo ira, congelata in ciò che di più impervio la natura rivela di sé, privo di vita e di quel calore che la protegge. Non è una novità se Satana maciulla tra i denti Giuda, Bruto e Cassio. La cosa è già anticipata dalla ferinità di Ugolino. Ira e disperazione sono compagne del cammino che troppo spesso, anche nella cronaca, conducono a sopprimere chi si era amato, a non dargli voce, a sottrarsi a ogni relazione che non sia la violenza verbale e fisica.
Non a caso si parla di uomini di ghiaccio quando si indica in essi la mancanza assoluta di affetti.