Paul Ricoeur scrive (ne Il paradigma della traduzione) che la traduzione esiste perché gli uomini hanno lingue diverse. Sembra banale ma non fermiamoci alla superficie di questa dichiarazione. Sappiamo che non si traduce solo perché non si capisce un’altra lingua. Non è così per il mondo romano che traduce i greci e nemmeno per il rinascimento italiano che volgarizza la classicità e per molti altri esempi. Tuttavia andiamo più a fondo di quello che intende Ricoeur. Che cosa cerchiamo nel tradurre? Certo qualcosa in cui possiamo riconoscerci, ma forse e con più desiderio anche ciò che ci è estraneo, forse incomprensibile o intraducibile. C’è un desiderio di rapporto nella traduzione, un desiderio di definire il proprio sé l’incontro con l’altro da sé. Come se nella relazione con l’altro da sé, rappresentato dal testo straniero, potessimo meglio scorgere il nostro vero io, come se nell’accogliere l’altro comprendessimo noi stessi. Ma ancora di più, come se nell’incontro con l’altro da sé fosse possibile superare la nostra limitatezza. Dunque sì, la traduzione esiste perché gli uomini hanno lingue diverse e in quella diversità riconoscono un valore, una possibilità di completamento. Solo quando siamo esposti alla diversità che lingue diverse ci impongono, solo in quel momento, abbiamo come la sensazione di poter andare oltre nostra finitezza. 



C’è un altro aspetto su cui vale la pena soffermarsi per comprendere cosa intendo dire con l’affermazione che nel tradurre si mostra il desiderio di un rapporto attraverso il quale possiamo meglio riconoscerci. Si perde sempre qualcosa nella traduzione, lo sappiamo. È una sensazione che ogni traduttore ha provato, che ha patito. È quell’angoscia del cominciare un qualcosa che non sarà mai, per definizione, come l’originale. Franco Nasi ha parlato di malinconia del traduttore. Una malinconia, aggiungo, che ci viene dalla sensazione di uno scarto che non riusciremo a colmare. Vorrei citare a questo proposito un autore che non ricorre troppo spesso nelle note dei traduttologi. Sigmund Freud nel 1915, in pieno conflitto mondiale, scrive un testo brevissimo che in italiano si intitola Caducità (Vergänglichkeit, Fugitivité in francese, Transience in inglese). Si tratta di un testo in cui Freud parla della questione di come superare la perdita, di elaborare il lutto e scrive: “Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera … di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora”. 



Su questo breve scritto è intervenuta Marie Bonaparte nel 1956 con un articolo pubblicato nella Revue française de psychanalyse intitolato “Deux penseurs devant l’abime” in cui riassume la nota di Freud e fa alcune considerazioni sull’argomento della Fugitivité. Nella riflessione della Bonaparte il punto fondamentale è che se le cose non perissero, il soggetto non sarebbe mai libero, non esisterebbe mai nulla di nuovo al mondo. La scomparsa di ciò che ci è appartenuto è necessaria affinché si possa creare il nuovo. La perdita crea ciò che rende bella la vita; apre le possibilità che favoriscono la creazione. Il lavoro sul lutto evita la malinconia.



È a questa capacità di saper affrontare la perdita a cui si riferisce Ricoeur, in quel testo intitolato Sfide e felicità della traduzione in cui scrive che è la rinuncia alla traduzione assoluta che rende possibile la felicità del tradurre. La felicità del tradurre diviene un guadagno quando rinuncia all’assoluto linguistico ed elabora il lutto della perdita dell’originale. In questo sta la felicità. 

È solo a partire da questo riconoscimento che allora siamo in grado di accettare che ogni traduzione è un tipo di riscrittura, ovvero una produzione testuale nuova a partire da un altro testo. Solo se abbiamo compiuto il nostro lavoro sul lutto di quello che non potrà più esserci possiamo comprendere che proprio in quanto riscrittura la traduzione modifica l’originale. È questa la vera provocazione del tradurre: trovare la somiglianza nella differenza.

Tutto questo ci dice che tradurre non solo non può essere semplicemente il passaggio da una lingua ad un’altra di un qualche senso già determinato, ma che siamo in grado veramente di tradurre solo quando siamo riusciti ad accettare la deriva di quel senso. Quando abbiamo superato il senso di perdita e assenza che la decisione di tradurre comporta.