Bratislava, anni Sessanta. Una scena molto particolare colpisce quotidianamente chi si trova a passare nei pressi della chiesa dell’Assunzione della Vergine Maria, nel quartiere Blumentál. Un uomo di mezza età percorre in ginocchio la cinquantina di metri che va dalle porte della chiesa al crocifisso nei pressi della casa parrocchiale, pregando e invocando misericordia: il suo nome è Pavol Korbuly. Il passato per cui chiede perdono facendo penitenza pubblica è quello di uno dei più severi giudici del Tribunale statale di Bratislava.
Il complesso dei Tribunali statali era l’apparato creato apposta dal regime per giudicare tutti quei fatti che potevano essere etichettati come reato di “Alto tradimento”. Sovente bastava una parola fuori posto, un commento in un bar o tra amici perché, con la soffiata “giusta”, si costruisse un processo condannando il “traditore” o il “servo degli imperialisti” o l'”agente del Vaticano/degli Usa ” a seconda dei casi, il tutto senza alcuna prova.
Sono di Korbuly, in qualità di presidente del senato dei giudici, le sentenze di condanna di due martiri del comunismo già beatificati dalla Chiesa cattolica: don Titus Zeman e suor Zdenka Schelingová, entrambi condannati nel 1952, rispettivamente a quindici e diciannove anni di reclusione.
Ma il nome di Korbuly si trova anche tra i membri del senato giudicante la cosiddetta “Legione Bianca” (in slovacco “Biela Légia”), con le conseguenti condanne a morte di Anton Tunega, Albert Púcik e Eduard Tesár nel 1951.
E sempre nel 1951 Korbuly è fra i giudici del processo farsa contro i vescovi cattolici Vojtaššák, Buzalka e Gojdic, quest’ultimo anche lui beatificato dalla Chiesa cattolica. Proprio dopo la conclusione di questo processo Korbuly scriverà, nel proprio modulo di valutazione degli obiettivi, di essere “convinto di andare avanti nel lavoro, perché bisogna continuare a combattere il nemico con durezza e senza compromessi, anche quando questo indossi i paramenti episcopali”.
Per capire quanto duramente il regime comunista attaccò la Chiesa cattolica nel corso degli anni Cinquanta, è utile ricordare ad esempio l’azione coordinata “Akcia K” compiuta nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950, e con l’obiettivo di liquidare gli ordini religiosi maschili, nel corso della quale oltre mille tra monaci e frati furono deportati verso conventi che per l’occasione erano stati trasformati in campi di concentramento. Il 29 agosto dello stesso anno un’azione analoga ebbe luogo per la liquidazione dei conventi e monasteri femminili.
Ascoltando le parole del figlio di Pavol Korbuly, Peter, intervistato per il dvd- documentario “Zdenka” sulla vita della beata Schelingová, morta per le conseguenze delle torture subite durante la reclusione comminatale dall’implacabile giudice del regime, è impossibile non commuoversi. Il racconto di come il padre fosse determinato a fare penitenza, ogni giorno, fino alla morte, è vivissimo nel ricordo di Peter, mentre con gli occhi lucidi ripercorre con la memoria quei momenti di e angoscia stupore per il pentimento pubblico del padre. “Papà, ma cosa fai? Ti conoscono tutti! Non farlo. Non ti vergogni?” erano le parole di un figlio che non poteva ancora comprendere il dramma per la consapevolezza di aver fatto del male a così tante persone vissuto così intensamente dal padre. Ma Korbuly era inamovibile, la sua risposta non ammetteva repliche: “Devo farlo”, rispondeva al figlio, inflessibile con sé stesso, tanto quanto lo era stato verso gli altri, da giudice.
Qualcuno potrebbe pensare che il pentimento e il rimorso siano state la logica conseguenza del fatto che anche Korbuly, alla fine, era finito nelle maglie della giustizia repressiva del regime cecoslovacco. Nel 1959, infatti, era stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione per aver espresso sentimenti favorevoli alla tentata rivoluzione del 1956 nella sua terra di origine, l’Ungheria. Ma la storia non è così semplice. Korbuly era un credente anche prima di intraprendere la carriera giudiziaria. La sua conversione successiva non era pertanto stata la conversione di un ateo; non era rimasto accecato sulla via di Damasco. Non si può nemmeno credere che il giudice non fosse stato consapevole di quanto sarebbe accaduto durante la prigionia a tutti quelli per cui aveva firmato sentenze di condanna ed è sempre il figlio Peter ad affermarlo con certezza: Korbuly sapeva cosa avrebbero comportato quelle condanne per chi le riceveva, ed era profondamente convinto che tutto ciò fosse necessario per il bene del “sistema della democrazia popolare”, come veniva descritto in burocratese il regime comunista negli atti di accusa, nei verbali degli interrogatori e nelle sentenze.
Esiste però un dettaglio che riporta la fede al centro dell’attenzione e rende la storia ancora più affascinante. Quell’uomo deciso a umiliarsi quotidianamente davanti a Dio e agli uomini, compreso il figlio, aveva compiuto un autentico atto di coraggio, ancora prima di venire condannato e sperimentare sulla propria pelle la durezza del regime per cui aveva lavorato così a lungo. “La Vergine Maria aiuta sempre — 1958 Korbuly Pal” si legge, infatti, su di un ex-voto presente in una ricostruzione della grotta di Lourdes, a pochi passi dal centro di Bratislava e non c’è alcun dubbio che si tratti dello stesso Korbuly, anche se nessuno, nemmeno il figlio Peter, ha mai scoperto in che modo la Vergine Maria abbia effettivamente aiutato l’ex giudice. Probabilmente non sapremo mai cosa abbia spinto Pavol Korbuly a pentirsi così profondamente del male causato, ma certamente la sua penitenza pubblica è un segno autenticamente cristiano, una luce improvvisa nel buio della repressione comunista. Una luce che si è accesa anche grazie al coraggio e alle preghiere di tanti innocenti come suor Zdenka Schelingová, di cui è noto il fatto che pregasse incessantemente anche per i suoi persecutori.
Pavol Korbuly ha avuto il coraggio di riconoscere la Verità, in un momento in cui il potere faceva ancora di tutto per tenerla ben nascosta e nel farlo è stato travolto dal peso di tutto il male commesso. Ma non ha cercato di uscirne vigliaccamente, accampando scuse, fuggendo, o suicidandosi come tanti altri avrebbero fatto al suo posto. Ha invece assunto pubblicamente le sue responsabilità e si è umiliato davanti a tutti, persino davanti al figlio Peter, che nelle ultime immagini del documentario su suor Zdenka Schelingová, con evidentissima commozione, conclude: “Se potessi incontrare suor Zdenka, la abbraccerei. La abbraccerei, e le chiederei perdono, perdono! Non cancellerebbe nulla, ma sarebbe per me molto importante: chiedere perdono”.