Si conclude “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore (ndr).
La porta da cui si entra
Il treno è arrivato alla stazione di Istanbul, la porta d’Oriente, quando la notte è appena calata sulla città.
Appena usciti da Salonicco, la ferrovia per un breve tratto costeggia il mare: qui il Mediterraneo perde l’intensità azzurra delle isole greche a sud e diventa una distesa quasi grigiastra, complice anche la luce velata del mattino. La Grecia settentrionale si arrampica in montagne aspre e rocciose, in lande desolate, e vive in paesetti di pastori e agricoltori; qui la Grecia è più balcanica e meno mediterranea: persino i volti degli uomini e delle donne che salgono su questo treno da luoghi impervi e inaccessibili, hanno i lineamenti più duri e sorrisi meno ospitali.
Sono arrivato al confine greco. Ad Alexandroupolis l’Europa sembra finire. Questa cittadina era sorta come un campo profughi per i greci che scappavano dalla Turchia a seguito dello “scambio” di popolazioni tra i Greci d’Asia Minore e i Turchi di Grecia, sancito nel 1922 dal trattato di Losanna.
Alla stazione ferroviaria, dal finestrino scruto alcuni giovani seduti, soldati che in una giornata molto calda stanno giocando a carte. L’arrivo del treno diretto a Istanbul deve costituire per loro il principale evento della giornata, da quando i rapporti tra Grecia e Turchia sono migliorati.
Il mio scompartimento è vuoto. Passa il controllore: “Istanbul?” e fa capire di scendere alla prossima stazione, perché è il villaggio più vicino al confine turco. Mi incammino, cercando di unirmi a qualche altro “profugo” che voglia varcare il confine greco-turco: sono tutti ragazzi, un poco più giovani di me, in interrail.
Il treno turco che ci è venuto a prendere si è messo in moto e, dopo aver attraversato un ponte sul fiume Strimone, confine geopolitico tra Grecia e Turchia, si è fermato nel primo villaggio oltre la frontiera, dove scendiamo per sbrigare le formalità burocratiche. Mentre gli agenti della dogana sono impegnati a metter marche da bollo e a timbrare passaporti di varie nazionalità, beviamo una birra, progettando le prossime destinazioni: molti, dopo una breve sosta a Istanbul, si sarebbero recati nella costa egea della Turchia dove le vestigia archeologiche testimoniano il ricco passato ellenico.
Cala la sera e l’aria ha il sapore di terra bruciata, come se questa cominci a respirare, odorosamente, per la frescura appena sopraggiunta.
Il treno ora sarebbe andato a Istanbul, senza alcuna fermata intermedia.
Mi sono appisolato e poi risvegliato quando il treno era entrato in città, e l’odore marino del Bosforo riempiva già lo scompartimento. Ormai è completamente buio e la luce dei palazzoni della periferia di Istanbul si specchia sulle acque dello Stretto.
Ormai il treno si è fermato del tutto. Sono arrivato in quella che è stata la vecchia Costantinopoli. Dodici ore di viaggio, e mille anni di storia ad attendermi sulla terrazza per la colazione, il mattino seguente.
La “mia” Istanbul è tutta lì. Una aria ricca di luce sfiora la vista panoramica di cui si gode dalla terrazza. Vedo svettare la Moschea blu: il suo nome ufficiale è Sultan Ahmet Camili e deve il suo appellativo al colore turchese che domina le sue forme: pareti, colonne e archi sono coperti dalla maioliche di Iznik, le cui sfumature variano a seconda della luce che penetra dalle duecentosessanta finestrelle.
Sorseggio il caffè e apro il libro che giace tra alcune olive e alcune fette di pane caldo con scaglie di un formaggio che assomiglia molto alla feta greca. È lì Il libro nero, questo è il titolo di un romanzo di Othar Pamuk, nato a Istanbul nel 1952, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 2006.
Ne Il libro nero, forse il primo romanzo che ha reso il suo autore noto al grande pubblico, Istanbul appare al contempo reale e fiabesca: è la storia del giovane avvocato Galip che si mette alla ricerca della moglie Ruya, misteriosamente scomparsa. Dai pochi indizi lasciati, Galip suppone che sia andata dal fratello giornalista, ma anche lui è svanito nel nulla. Alla disperata ricerca del proprio sogno (Ruya in turco significa sogno) Galip assume, grazie alla rete dell’ambiguità narrativa, la personalità del cognato, mentre vaga per una città in cui Oriente e Occidente, tradizione e innovazione, confluiscono in un ribollente calderone di contraddizioni, dove la realtà, piano piano, viene sfumata nell’evanescenza del mondo onirico dei mille luoghi evocati dal ricordo.
Quella Istanbul rivive qui sotto, nel grande viavai di persone che camminano nelle stradine che si districano nel centro storico, dove i vecchi palazzi stanno, piano piano, cedendo il posto a grandi alberghi.
Un gabbiano mi distrae dalla lettura: si è posato sul mio tavolino e, più astutamente di una gazza ladra, ha arraffato con il becco un pezzo di formaggio ed è volato via verso Aghia Sofia.
Continuo a leggere le pagine di Pamuk: ora il protagonista del romanzo sta camminando nelle vie del Bazar, a piazza Beyaziz svolta in via dei Fabbricanti, poi via Samovar, via dei Narghilè, fino al Corno d’Oro, e ancora via dei Damerini, via della Fontana dei Nani, S. Caddesi, viale Atartuk, via dei Tessitori, via del Mercato del legname, via Tappetari, via Della Patria, via delle Due Tortore, via dell’Erudito, viale Fevzi Pascià, via Fossa dei Leoni, Ponte del Galata, piazza del Mercato, via Izzet il Calligrafo direzione di Madre Arguzia. E alla fine del suo errabondo percorso, il protagonista
“pensò, mentre si avviava per via Izzet il Calligrafo direzione di Madre Arguzia, se i manoscritti hurufi e gli hurufi stessi non fossero stati dispersi in seguito alla congiura, e il sultano fosse riuscito ad arrivare al mistero della città, che cos’altro avrebbe potuto scoprire mentre si aggirava per le vie bizantine appena conquistate guardando, come me, mura crollate, platani centenari, strade polverose, lotti di terreno deserti? Arrivato al deposito dei tabacchi e ai tremendi vecchi edifici di Cibali, si diede da sé la risposta, che per altro conosceva da quando aveva letto le lettere che portava in faccia: pur percorrendo la città per la prima volta, l’avrebbe riconosciuta come se l’avesse già vista migliaia di volte. Lo straordinario era che Istambul continuava a essere una città appena conquistata. Non gli sembrava di aver mai visto quelle strade fangose, quei marciapiedi accidentati, quelle mura cadenti, quegli alberi di un malinconico color piombo, quelle auto e quei bus sgangherati e ancora più vetusti, quei volti tristi che sembrano tutti uguali, quei cani tutti pelle e ossa”.
Lo stato d’animo del protagonista riflette l’aspetto dell’Istanbul moderna cogliendo forse l’essenza di una città che, in modo straordinario, quasi magico, continua a essere una città appena conquistata: ecco che viene rievocata la passeggiata del sultano conquistatore nella antica capitale della Romània, o meglio degli ultimi lacerti che erano rimasti dell’Impero dell’isoapostolo Costantino.
Lo stesso fatale sbigottimento che leggo nelle pagina dello storico bizantino Ducas, testimone oculare della Costantinopoli appena conquistata: “La popolazione cittadina, quella superstite, si trovava tra le tende dell’accampamento turco. La città si presentava deserta, giaceva morta, nuda, silenziosa, spogliata di ogni sua bellezza e decoro…”. Da allora, secondo la pagina di Pamuk, dopo cinque secoli, Costantinopoli-Istanbul continuava a essere una città appena conquistata.
Ancora qualche sorso di caffè.
Dopo la caduta di Costantinopoli, venne la caduta dell’Impero ottomano ad opera di Mustafà Kemal, il quale, alla guida dei Giovani Turchi, rovesciò l’ultimo Sultano liberando le concubine del fiabesco harem, avviò il paese sulla strada della modernità e volle sancire la rottura con il passato con il trasformare nel 1924 Aghia Sofia in un museo nazionale: la Turchia diveniva uno stato laico, spiritualmente guidata dall’insegnamento di “Atartuk”, il “padre dei Turchi”, la cui effigie sovranamente troneggia dappertutto.
Costantinopoli aveva visto eternare le lodi del Signore nell’antico alfabeto greco, Istanbul aveva celebrato la bellezza della creazione di Allah con i sinuosi caratteri dell’alfabeto arabo riadattato alla fonetica della lingua turca, Atartuk aveva aperto la porta della fierezza nazionalistica al mondo occidentale con la traslitterazione del turco nei caratteri dell’alfabeto latino.
Il Mediterraneo è anche un mare di scritture che si mescolano per formare nuove lingue e inauditi linguaggi. Ma dal basso della terrazza giungono varie voci che mi distraggono da questi pensieri che sono ancora originati da uno stato di dormiveglia: la città si sta svegliando e animando.
Guardo di sotto, mentre sorseggio il mio caffè, lento nel raffreddarsi: dalla terrazza vedo molti capi velati, puntini colorati che camminano. Sono le donne che portano il velo, che preservano simbolicamente quello che, per la loro sensibilità, è il senso del pudore e quello che, per loro mentalità, rappresenta la continuità della tradizione millenaria e un precetto religioso che le avvicina a Dio; ma forse è anche il segno che rimarca una loro differenza e volontà di differenziazione: dall’alto di questa terrazza, dove la luce mediterranea è il vitreo velo che ombreggia le nostre esistenze umane, mi chiedo: è necessario parlare di scontro di civiltà? Sono approdato all’altro estremo del Mediterraneo, dopo aver toccato lo Stretto di Gibilterra dove il Mediterraneo mescola le sue acque con l’Oceano Atlantico; ho attraversato l’Egeo per toccare la parte opposta, dove il Mediterraneo rimescola le sue acque con il Mar Nero e avvista, all’orizzonte, l’Oriente vicino e lontano.
E penso: di fronte alla libertà smisurata oceanica che è stata oggetto di una conquista, basata sulla superiorità della tecnica dell’uomo del Rinascimento, come scrive Franco Cassano in Il pensiero meridiano, “il mare Egeo e il Mediterraneo si limitano invece a separare le terre, fissano una distanza che non è mai la dismisura dell’oceano, essi sono una discontinuità forte fra terre, ma non il loro abbandono senza orientamento. Questa distanza che, specialmente per il navigatore antico, può essere grande e terribile, non è tuttavia un abisso e il mare non affoga nell’oceano. Essa separa dalla Madre-Terra ma non conduce a rinnegarla. Le Colonne fissano nell’immaginario greco proprio il salto tra un mare che rimane tra terre e l’infinità estensione dell’oceano. Le distanze marine dell’Egeo e del Mediterraneo aprono alla possibilità di un rapporto, di un contatto, anche se esso può essere feroce e terribile. Questo mare è soprattutto (ma la lingua greca conosce tre nomi per il mare) pontos, braccio di mare, ponte che congiunge e distacca da un Altro che rimane a distanza, su un’altra riva. In questo intervallo che collega, in questa distanza che mette in relazione stanno la gelosa custodia della propria autonomia e la facilità del conflitto, ma anche, stretta ad esse come la pelle, la repulsione verso ogni integralismo”.
Così scrive Cassano, parlando dell’Altro, senza specificare chi sia.
Ma chi è l’Altro? È il mondo arabo-musulmano, che sta al di là del Mediterraneo.
Questa riflessione di dicotomia tra Sé e l’Altro cui accenna Cassano richiama alla mente la nota tesi di Edward W. Said esposta nel saggio Orientalismo: l’orientalismo, nella sua accezione più ampia, è uno “stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’Oriente da un lato, e (nella maggior parte dei casi) l’Occidente dall’altro, una formazione discorsiva che crea letteralmente il proprio oggetto attraverso una divisione dicotomica della realtà umana (‘noi/gli altri’) e l’attribuzione all”altro’ di una ‘essenza’ astratta e immutabile; il “modo occidentale per esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull’Oriente, disumanizzandolo e riducendolo a semplice oggetto di appropriazione conoscitiva e coloniale”.
La forza del libro risiede nell’aver messo a nudo gli stereotipi razziali e culturali e, al contempo, le complicità col potere coloniale che innervano un insieme di discipline che si presentano come neutralmente specialistiche e accademicamente disinteressate; il saggio solleva interrogativi cruciali, ineludibili per chi voglia sostenere il dialogo interetnico e interculturale: ” Si può dividere la realtà umana, che sembra di per sé divisa, in culture, eredità storiche, tradizioni, sistemi sociali e persino razze diverse, e salvare la propria umanità dalla conseguenze? […] In che modo possiamo rappresentarci culture differenti? Che cos’è un’ altra cultura? La nozione di cultura diversa (o di una razza, s’ impianta nell’autocompiacimento (quando si discute della propria), o nell’ostilità e nell’aggressività (quando si discute delle culture ‘altrui’?”, come scrive Said in Orientalismo.
A Istambul, dalla porta d’Oriente, rileggo una pagina dello scrittore israeliano Yehoshua, in cui si racconta che, durante il tragitto verso Parigi, in una sosta a Rouen, l’ebreo magrebino Ben-Atar, accompagnato da un arabo, è invitato, dopo la Santa Messa, a banchetto da un monaco cristiano:
“Hanno gli infedeli gradito la preghiera cristiana? A questa domanda il rabbino cerca di dare una risposta a nome di tutti, ma il monaco si ostina a voler udire la personale opinione di ciascuno dei marinai. Si scopre allora che proprio il rintocco delle campane è ciò che ha maggiormente stupito e commosso i marinai nordfricani. Nelle moschee non vi sono campane, conclude Abd el-Shafi a nome dei veri musulmani, cosicché, quando col volere di Dio, faranno ritorno al Califfato omayyade, suggeriranno di unire alla chiamata del muezzin anche quel suono. Udendo questa risposta il monaco sorride con malizia. Anche lui è del parere che il rintocco della campana sia utile per richiamare alla preghiera coloro che sono lontani, ma una preghiera in onore di chi? Domanda, proseguendo subito senza attendere una risposta: in onore di Maometto? È vero, uomo importante, grande profeta, che ha visto da vicino l’angelo del Signore, ma tuttavia è morto da tempo, mentre qui le campane richiamano i fedeli alla preghiera in onore di colui che non morirà mai e siederà in eterno alla destra di Dio, come un figlio alla destra del padre. Ed ecco che è agli ospiti venuti da lontano è ora concesso il privilegio di fare la sua conoscenza, poiché la buona sorte li ha fatti giungere fin qui alle soglie dei mille anni dalla sua nascita, quando egli redimerà l’intera umanità dalla sofferenza. E noi che pensavamo che gli ebrei lo avessero ucciso da tempo, si lascia improvvisamente sfuggire Abd el-Shafi, lasciando allibiti Ben-Atar e il rabbino. Il monaco sorride con serenità. È forse possibile uccidere il figlio di Dio? Persino la mente più malvagia non sarebbe capace di concepire la sua morte. Ed è proprio per questo che i cristiani hanno deciso di lasciare i maledetti ebrei nel loro stato di inferiorità, affinché siano testimonianza vivente della propria malvagità e stoltezza. Il comandante annuisce verso il monaco con profonda accondiscendenza, ma Ben-Atar, dal canto suo, giudica opportuno interrompere questa conversazione teologica, che non sa dove potrebbe condurre. Si alza e chiede al rabbino andaluso di ringraziare in latino per l’accoglienza: di ritorno alla loro lontana città natale non dimenticheranno la cattedrale di Rouen e la pia cerimonia alla quale hanno assistito, e all’arrivo dell’Anno Mille quando questo loro Cristo scenderà dal cielo, forse potranno chiedergli, di grazia, se la cosa non gli è di troppo disturbo, di spingersi a sud e far loro visita a Tangeri. Anche lì sarà accolto con tutti gli onori. Poiché talvolta i fedeli di un profeta morto e sepolto provano nostalgia per qualcuno di vivo che li possa consolare dalle affezioni terrene come quelle che ora, per esempio, non permettono loro di prolungare la permanenza qui e di godere dell’interessante conversazione, ma li costringono a ritornare al fiume e a proseguire il loro viaggio verso Parigi, dove le loro merci sono attese con impazienza. Parigi, sì Parigi borbotta il monaco, quasi fosse abituato a lottare contro qualcosa di più forte che lo vede sempre sconfitto e, controvoglia, interrompe l’intricato discorso per permettere ai testardi mussulmani di ritornare alla loro nave”.
Brusii di riflessioni si accalcano nella mia mente. Ma sono brezze del pensiero meridiano che si perdono nella luce del sole che è sorto illuminando la Moschea blu e Aghia Sophia, in questa nuova mattina, in cui vedrò Istanbul, porta d’Oriente, e secondo alcuni nuova, prossima porta dell’Unione Europea.
(12 – continua)
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