Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi il successo editoriale dei thriller sembra non avere avuto appannamento. Al massimo, volta per volta, quando tramontava o si eclissava per un attimo il nome del momento, subito arrivava uno nuovo a dettare i ritmi e i temi per gli anni a venire. 

In Italia, questo fattore si è unito a tre caratteristiche tipiche nella letteratura europea di consumo. Si è recentemente affiancato, cioè, alla scoperta di massa del crime scandinavo, con la sua sapiente commistione di elementi tradizionali del giallo ad enigma e di altri presi dal noir di attenzione sociale. E si è ben combinato pure al boom di una serie di giallisti nazionali che hanno creato un immaginario editoriale molto favorevole alla pubblicistica del ramo, da Camilleri in poi: il personaggio seriale diventa icona grazie alla fiction, la trama conta sempre di meno. Questi aspetti, del resto, si sono amalgamati facilmente in un panorama complessivo che ha sempre identificato il romanzo giallo e il romanzo rosa come baluardi, sempre più isolati, del mercato editoriale di massa. Sui treni e sulle spiagge, Harmony e i quindicinali della Mondadori o della Marsilio sono presenze fisse. 



Nel vasto panorama internazionale, alcuni nomi, certo, hanno più forza contrattuale di altri. Tra i grandi bestseller, la frizzante poliedricità di Don Winslow, col suo gusto naturalmente cinematico, o la solida stringatezza narrativa di un Michael Connelly sembravano destinate a prevalere senza sconti sulla carica oscura ma talvolta forzosa di Jo Nesbø. Harry Hole, il suo primo grande eroe, è alle prese con situazioni sempre più paradossali ed è un miracolo che sia ancora vivo; una sorta di Keith Richards del thriller, con addosso i demoni di Kurt Cobain (Nesbø è anche musicista; di persona apprezza molto accostamenti siffatti). Fuori dalla serie di Hole, lo scrittore norvegese ha fatto alcune delle cose più belle uscite dalla sua penna. 



Bisogna riconoscere, inoltre, che l’ultimo lavoro, un Macbeth uscito in Italia per i tipi di Rizzoli, ha un che di sinistramente epocale. Concepito all’interno di un progetto editoriale multinazionale che ha coinvolto molti scrittori dalla penna feconda e dalla classifica facile nella rilettura contemporanea di opere di William Shakespeare, con Nesbø la serie sembra forse al suo miglior capitolo. La storia di intrecci e poteri avviene in una città post-industriale di fine anni Settanta, che sembra un po’ il mondo di oggi con le cabine telefoniche al posto dei cellulari e l’eroina al posto della cocaina. Organizzazioni criminali di strada e corruttele pubbliche, spaccati di mediocrità umana e familiare, i mille volti della rappresentanza: i graduati buoni e quelli marci, la crisi economica, la sostituzione di un sistema produttivo con un altro. 



La critica internazionale non sta esaltando la fatica del Nostro, ma i distinguo guardacaso insistono tutti sulla discutibile opera di “volgarizzazione” del Bardo più che sui limiti di scrittura di Nesbø. Se l’autore norvegese sin qui aveva ingannato se stesso, cercando il male ai quattro angoli del globo, ora finalmente ci racconta come spesso il male peggiore sia già ben dentro quartieri, strade e loschi affari delle nostre città. Anche Shakespeare del resto sapeva che non tutto il marcio è in Danimarca.