“Avrebbero dovuto pensare alla grandezza di Dio e non alla propria, per raggiungere la vera grandezza”. Così, in una frase poco più che accidentale, Etienne Gilson si esprime riguardo all’amore di Abelardo ed Eloisa, la cui vicenda è nota a molti come il legame più drammatico tra un uomo e una donna nel cuore del XII secolo. Dapprima uniti dall’amore per la sapienza, poi amanti, in seguito sposi, infine confinati in due monasteri benedettini in una vicenda raccontata in un Epistolario sulla cui autenticità si sono affaticati molti studiosi.
Gilson a questo proposito narra un piccolo episodio occorsogli nella sala dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi. Aveva chiesto un’informazione a un vecchio benedettino a proposito del significato di due parole della Regola, dal quale avrebbe potuto stabilire l’autenticità di quel carteggio. “Mai un volto rifletté maggior stupore. Poi, dopo una pausa: — E’ impossibile che non sia autentico: è troppo bello —”.
Entrambi sapevano che la bellezza non è affatto una prova per stabilire con certezza la verità di un fatto o anche solo di un testo. Eppure per una volta questa ipotesi si fa largo tra le carte che raccontano con grande sapienza e dottrina una vicenda d’amore umana e spregiudicata come quella di cui si stavano interessando.
Abelardo ed Eloisa erano troppo colti per confinare l’incertezza se continuare a essere amanti o regolarizzare davanti a Dio la loro relazione allo stretto ambito morale. Una lunga tradizione assegnava al sapiente il dovere di essere casto: da Socrate a Seneca a san Girolamo chi si occupava di filosofia e più ancora di teologia aveva il compito di dedicarsi agli studi con amore indiviso, come quello dello sposo per la sposa. Questa è la ragione della lunga resistenza di Eloisa alla proposta di matrimonio segreto fattale da Abelardo: lei, forse più di lui, pensava alla grandezza dell’uomo che amava, alla sua dignità di maestro delle scuole di Parigi e non voleva che fosse sminuita la fama che ovunque lo accompagnava. Lui pagò con l’evirazione, i processi, la ribellione dei monaci di cui era abate, lei con una monacazione forzata che la tormentò tutta la vita: era infatti la sposa di Abelardo, non di Cristo.
La loro vita fu grande. Una grandezza ottenuta con lo studio, con l’ascesi monastica, con la sofferenza. Basta scorrere le pagine del loro epistolario per accorgersi di quanto non comune fosse la personalità e la cultura dei due protagonisti di questa singolare vicenda. Eppure sembra molto vero ciò che Gilson afferma in quel breve passaggio al quale si accennava all’inizio. La grandezza dei due può riempire di ammirazione e di pietà, ma è come tesa su un filo di orgoglio che la rende scomposta e fragile. Si direbbe che manchi la grazia dell’abbandono all’unico che è veramente grande e il cui amore rende grande anche la creatura più piccola.
Un piccolo sì alla grandezza di Dio. E, oltrepassando i confini di questa storia medievale, un piccolo sì alla grandezza di Dio nel progettare la vita civile, la solidarietà con i più svantaggiati, nell’educazione dei figli e dei giovani, nella compagnia agli ammalati. Abbiamo tutti da imparare dai maestri e questa volta uno studioso del medioevo ce ne ha dato l’occasione, con un meraviglioso saggio che illumina le pieghe nascoste di un secolo lontano.