Gli Stati Uniti d’America non sono semplicemente un paese, una nazione, una cultura: sono un vero e proprio mondo, un mondo che potrebbe tranquillamente esistere senza il resto del pianeta. L’Europa o l’Asia possono suscitare interesse a New York o a San Francisco, ma nelle pianure del Kentucky o nelle cittadine dell’Oregon si vive tranquillamente quello che è accaduto o accade al di là dell’oceano. Ogni tanto i governanti scuotono il Paese dal proprio torpore chiamandolo a partecipare a qualche guerra, ma per il resto la vita dell’America di provincia scorre lenta e costante come un grande fiume.
Per capire l’America profonda, quella che vive o sopravvive lontana dalle mille luci di New York o dai lunghi viali di Los Angeles, non c’è che leggere Raymond Carver. Colui che dopo morto venne acclamato come il signore del romanzo breve, la short story, come il grande minimalista, come uno dei principali esponenti della cultura statunitense di fine secolo, si spense giusto trent’anni fa, nell’estate del 1988. Aveva solo cinquant’anni, e la sua salute era stata minata da una vita difficile e dall’abuso di alcool.
La vita di Carver è una sorta di icona di quell’America di provincia cui accennavamo. Nasce nel 1938 in una cittadina dell’Oregon. La famiglia è povera: il padre lavora in una segheria, la madre — di origini irlandesi — è una cameriera. Durante la guerra la famiglia si trasferisce nello Stato di Washington, a Yakima. Quartieri poveri, vita dura, la scuola della strada. Raymond tuttavia ha un fuoco che brucia dentro di lui: è il fuoco dell’arte. E’ nato per scrivere: lo dimostra fin da adolescente. E’ nato per descrivere quello che accade intorno a lui, e questo talento non lo abbandonerà mai, arrivando a farne una sorta di letterario ritrattista di umanità. Una umanità varia e spesso disperata, come quella con cui ha a che fare quotidianamente. La vita in famiglia è difficile: alla povertà si aggiunge il problema della malattia del padre, che comincia a manifestare problemi neurologici. Raymond frequenta una high school di Yakima, la classica, tipica high school della provincia americana, dove l’evento principale è il ballo di fine d’anno in cui spesso nascono i primi amori. E’ così anche per Ray, che a diciassette anni inizia una relazione con una ragazza poco più giovane di lui, Maryann Burk. Alla fine della scuola, a diciannove anni, la sposa, anche perché lei è già incinta.
Inizia una lunga lotta per trovare lavoro, per mantenere la sua giovane famiglia. Raymond ha un solo sogno e un solo desiderio: diventare scrittore. Le letture sulle quali si è formato sono Hemingway e Burroughs, un po’ poco. E’ la giovane moglie che lo spinge a dilatare i propri confini intellettuali, a provare ad iscriversi all’università. Raymond lo farà, ma più che i libri la sua fonte di ispirazione sarà sempre la realtà che lo circonda, gli incontri che fa, le situazioni che vive.
La sua arte nasce qui, e anche se avrà modo di trovare mentori che cercheranno di aiutalo e punti di riferimento culturali, resterà sempre un artista istintivo.
La frustrazione che viveva per le varie difficoltà trovò sfogo attraverso il classico canale dei poveri, della working class: la bottiglia. La dipendenza dall’alcool — in cui cercava anche un ulteriore ispirazione per scendere nell’abisso del cuore umano — minò e distrusse il suo matrimonio. Ma fu proprio quando si ritrovò solo che Ray si imbatté in quella che doveva diventare la sua stella guida: Tess Gallagher. La grande poetessa americana, di cinque anni più giovane di lui ma alla quale aveva già arriso un certo successo di critica e di pubblico, diventò la musa ispiratrice di Carver, e quindi la sua nuova compagna nella vita.
Tra i due nacque un grande sodalizio umano e culturale, e finalmente Ray fu in grado di esprimere appieno tutte le proprie potenzialità.
Vennero gli anni Ottanta, e con essi finalmente il successo. Storie brevi e lampanti che raccontano le ipocrisie, i rapporti familiari spesso conflittuali e incompresi, le menzogne, le paure e tutti i piccoli drammi e i tormenti del quotidiano a cui l’umanità intera è costretta a sottostare. Il tutto raccontato con stile scarno, crudo, asciutto e diretto. “Minimalista” sentenziò la critica letteraria che finalmente — forse grazie anche a Tess Gallagher — aveva cominciato a prenderlo in considerazione. Ma forse il termine più appropriato per descrivere la scrittura straordinaria di Carver è essenzialità. Una essenzialità che non è mai sciatteria, banalità.
Carver darà voce semplice ma efficace alle persone comuni, umili e modeste che vivono le loro misere esistenze sentendosi sempre inadeguati nei confronti di una vita e di una società che li disprezza.
Carver riesce a dare dignità ai reietti, agli sconfitti della vita. Il suo capolavoro è Cattedrale del 1983. Una raccolta di racconti pieni di lacerazioni profonde dell’anima, di umanità fragile e ferita che ricorda i personaggi di una grande scrittrice americana, Flannery O’Connor.
Come lei Carver ci descrive l’America, il suo way of life, il sogno americano che spesso si infrange, o diventa un incubo.
Carver scrisse di questa America di vinti, di gente che arriva ultima al traguardo, o che proprio non ci arriva. Scrisse di sé, dei propri fallimenti, dei propri dèmoni, come l’alcool che lo portò alla morte, dell’amore che cercava disperatamente di vivere, della felicità cui anelava, come ogni uomo, piccolo o grande che sia.